Gli aerei da guerra al tempo del Covid 19 (2020)
In merito alla propaganda in favore dell'acquisto di nuovi velivoli da combattimento
Gli aerei da guerra al tempo del Covid 19. Sicurezza e propaganda («Nonviolenza» n. 40, settembre 2020)
di Danilo Baratti
Non ha molto senso insistere qui sull’inopportunità dell’acquisto di nuovi aerei da combattimento, per una spesa complessiva che oltrepasserà ampiamente, tenuto conto anche della manutenzione negli anni, i 20 miliardi di franchi. Non solo perché questo numero di «Nonviolenza» uscirà a ridosso della votazione, magari a cose fatte, ma perché si può immaginare che i suoi lettori abbiano già una posizione fermamente contraria. Più interessante è allora soffermarsi rapidamente su certi aspetti della campagna a favore del decreto federale, a partire dal cartellone pubblicitario che riproduciamo qui. «In ogni situazione la giusta protezione», dice lo slogan. E a proteggerci sono, con una rappresentanza falsamente maggioritaria del genere femminile, i poliziotti, i piloti militari, le guardie di confine, la protezione civile, la guardia aerea di soccorso (se interpreto correttamente la figura femminile sullo sfondo). L’idea di una giusta protezione viene quindi confinata all’ambito militare o affine, a un mondo in divisa e gerarchico (con l’eccezione della Rega, che qui è presente perché interviene anch’essa nella «terza dimensione», come hanno preso a dire alcuni sostenitori dell’acquisto, e cioè lo spazio aereo). Una limitazione del concetto di protezione un po’ paradossale in un tempo di pandemia dove i nostri «angeli protettori», celebrati più con parole retoriche che con un miglioramento delle condizioni di lavoro, indossano un camice e una mascherina, non una divisa.
L’uso (moderato) della pandemia
Più in generale, almeno per ora (24 agosto) il tema della pandemia è stato utilizzato dai favorevoli con una certa prudenza, anche perché la situazione evidentemente dà argomenti soprattutto a chi sottolinea altre priorità. Il tema è recuperato, in forma difensiva, insistendo sulla necessità di essere pronti a tutto (e quindi anche alla guerra aerea), come ha detto anche Viola Amherd in un’intervista al «Corriere del Ticino» del 21 agosto:
«La situazione con la pandemia è difficile. Un anno fa nessuno faceva i calcoli con questa emergenza. Avevamo un piano in caso di crisi, ma nessuno pensava che sarebbe arrivato il virus. Ma eravamo preparati e lo stesso deve valere per altre crisi e altre minacce. Non sappiamo quale sarà la prossima. Non possiamo dire: “Ora abbiamo una pandemia, al resto non ci pensiamo più”. Per la protezione della popolazione sarebbe nefasto».
Naturalmente non mancano riferimenti al ruolo dell’esercito durante la prima fase acuta della pandemia: «penso che la popolazione abbia capito che l’esercito c’è nel momento del bisogno. L’esercito è stato mobilitato a sostegno degli ospedali cantonali. Soprattutto in Ticino, da dove è arrivata la prima richiesta di aiuto militare. E questo segnala alla popolazione che l’esercito deve essere equipaggiato per ogni evento». Comunque il tema non è stato enfatizzato in campagna, come potevano far pensare certe uscite dei mesi scorsi. Per esempio uno scritto di Giancarlo Dillena (Quegli utili esercizi a freddo del passato, «Corriere del Ticino», 6 aprile 2020) che invitava a rivalutare, con un po’ di nostalgia, le «esercitazioni del tempo della guerra fredda»:
«Allora, con la memoria ancora fresca delle devastazioni cui avevamo assistito intorno a noi durante il secondo conflitto mondiale e sotto l’incombente minaccia dello scontro finale Est-Ovest, avevamo un’infrastruttura forse non in grado di superare una guerra termonucleare totale, ma comunque di tener testa a situazioni anche molto critiche. Era fatta tra l’altro di ospedali protetti, che offrivano un importante supplemento di letti e di supporti tecnici in caso di necessità; di un esercito con effettivi sostanziosi e quindi capace di offrire un importante aiuto non solo quantitativo; di un dispositivo di emergenza pensato per i rischi di contaminazione atomica, quindi in grado di far fronte a molti pericoli. Se non l’avessimo massicciamente ridotto nel nome della riduzione dei costi ma anche di visioni strategiche dominate dall’affanno dell’innovazione, non saremmo oggi in condizioni migliori per affrontare una pandemia che riporta d’attualità minacce di sapore non solo novecentesco, ma addirittura medievale? Forse non si poteva fare diversamente. Ma, mentre pensavamo a un mondo fatto solo di concorrenza economica e di ciberattacchi, questa minaccia proprio non l’abbiamo vista arrivare. Sono rimasti l’allenamento e la buona organizzazione. Bene. Ma con meno mezzi e un’infrastruttura più fragile. Non dovremmo allora fare una piccola riflessione anche su questi aspetti, finiti un po’ troppo frettolosamente in soffitta?»
No comment.
Un passo avanti per Fanny, non per le donne
Torniamo al poster della campagna. Nel gruppo dei cinque protettori in divisa, l’unica che si muove, che avanza gagliardamente con sorriso rassicurante, è la figura centrale, una pilota dell’aviazione militare. Una figura che richiama indubbiamente Fanny Chollet. Ce la facciamo presentare da Moreno Bernasconi, riportando la prima e l’ultima parte di un articolo pubblicato sul «Corriere del Ticino» del 18 agosto, intitolatoSuperwoman nei cieli svizzeri:
«Nome: Fanny. Cognome: Chollet. Professione: pilota d’aereo da combattimento. Tratti caratteristici: figura minuta, capelli lunghi raccolti a coda di cavallo. A soli 28 anni la giovanissima vodese ha rotto due muri: quello fisico del suono e quello di un certo pregiudizio mentale che considerava il mestiere di pilota militare uno degli ultimi bastioni esclusivi del sesso maschile. (...)
La coscienza della responsabilità della Superwoman dei cieli svizzeri è precisa e lo dice pacatamente ma chiaramente: ‘Garantiamo la sovranità del nostro Paese nel cielo che sta sopra le nostre teste’. Il servizio alla comunità e il senso di responsabilità non sono una questione di genere».
Non sono mancate le polemiche sull’uso dell’immagine della pilota – abile mossa propagandistica – alle quali la Consigliera federale Viola Amherd ha replicato nella già citata intervista al «Corriere del Ticino»:
«Non riesco a comprendere la critica. Abbiamo una pilota che ha terminato una formazione tosta, che ce l’ha fatta. Mi occupo da sempre di promozione delle donne, già da prima di entrare in politica. E quando una donna ottiene una posizione importante e non facile da ottenere bisogna mostrarla. Anche come modello da seguire. L’ultima volta che abbiamo votato sui caccia il mio predecessore aveva puntato su un pilota uomo. Non ho mai sentito nessuno criticarlo per questo».
Messa così, si potrebbe anche dar ragione alla ministra. Difficile contestare al suo dipartimento il diritto di usare l’immagine di una donna per la campagna (e poi la signora Chollet è effettivamente una pilota di aerei da combattimento) o la scelta della pilota di mettersi al servizio della campagna (ne ha tutto il diritto e certamente condivide il «decreto federale per l’acquisto di nuovi aerei da combattimento»). La questione è un po’ più complessa e richiederebbe di aprire un discorso generale su emancipazione, uguaglianza, parità, pari opportunità e concetti affini. Anche un “femminismo” di stampo sindacal-paritario, oggi prevalente, si rallegrerebbe dei traguardi raggiunti dalla signora Chollet, dei muri che ha rotto e che rompe. Secondo quella logica si potrebbe anche arrivare a stabilire delle quote di genere nell’esercito, aviazione compresa, rivendicandole come una fulgida tappa nella lotta per la parità di genere, come lo si fa per le quote in altri settori. Sarebbe allora il caso di andarsi a leggere le riflessioni, dimenticate, del pensiero della differenza, del femminismo della “seconda ondata” (non è un’espressione esclusiva delle epidemie), per capire come la professione della nostra pilota e il suo uso come testimonial rientrino nell’ordine simbolico maschile e nell’ordine sociale da esso generato.
Ma forse più dell’appeal trasversale di Fanny Chollet a far pendere la bilancia in favore degli aerei potrà il solito tema delle compensazioni e dei posti di lavoro: è qui – oltre all’illusione di una protezione a tutto campo – che la pandemia, con le sue conseguenze economiche, potrebbe fare il gioco di questo investimento sconsiderato, e nel contempo rafforzare la logica perversa del para bellum.
(«Nonviolenza» n. 40, settembre 2020)
votazioni, esercito, Nonviolenza, 2020
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