Tre vecchi scritti scolastici (1997, 1999, 2011)
– Tre testi, di diversa natura, legati alla Scuola cantonale di commercio di Bellinzona dove ho lavorato per parecchi anni –
Mi sono tornati in mano tre testi legati alla SCC di Bellinzona. Due li ho scritti sul finire dello scorso millennio quando insegnavo storia in quella scuola, il terzo è stato scritto più tardi, quando già avevo lasciato da qualche anno quella scuola per il Liceo di Lugano. Siccome, a modo loro, dicono qualcosa sull’evoluzione della scuola (della SCC, ma anche della scuola in generale), ho pensato di pubblicarli qui. Dove mettere questi scritti anomali? Visto che toccano, con registri diversi, temi di politica scolastica, per finire li ho messi nella categoria “riflessioni politiche”.
- Il Manifesto per la delucidazione, affisso all’albo della scuola nel 1997, è nato dopo una presentazione esasperante – ma a suo modo luminosa – del gruppo di educazione fisica al collegio docenti. Parla dell’abuso dei lucidi, i fogli plastici trasparenti da usare col retroproiettore, che da anni non si adoperano più. È quasi preistoria, ma lo stesso appello potrebbe valere oggi per l’abuso di PowerPoint. Il manifesto è stato sottoscritto da 39 docenti della SCC di Bellinzona e da 20 della Scuola diploma di Canobbio (l'ex Propedeutica): una docente di quella scuola l'aveva intercettato e appeso all'albo. Il manifesto è poi giunto anche in una scuola di Helsinki, dove lavorava un ex docente della SCC.
- Una modesta proposta, del 1999, prende spunto dalle considerazioni di un membro del Consiglio di direzione sulla tenuta poco acconcia di una parte del corpo studentesco. Ovviamente il mio regolamento non è stato adottato ma forse è servito a non farne proporre davvero un altro (anche se il rischio che ciò potesse accadere era già molto basso). Va detto che il collaboratore di direzione bersagliato l’ha presa bene, si è divertito e ha pure sottoscritto il testo affisso all’albo.
- La Lettera inutile di tre ex colleghi... è nata nel 2011, in occasione dello sciagurato taglio di un’ora di storia. D’intesa con una collega e un collega, pure rescapés, ho scritto una lettera al collegio docenti della nostra vecchia scuola. Il testo è stato letto durante una seduta del collegio docenti SCC dall’allora capogruppo di storia.
(ottobre 2024)
1. Manifesto per la DELUCIDAZIONE
Uno spettro si aggira per le aule e le sale da conferenza - il lucido.
Docenti e studenti, biochimici e poliziotti, funzionari e politici, militari e manager, sociologi e vicesindaci, moralisti e ginnasti, tutti i relatori dell’Occidente opulento illuminano ossessivamente le pareti alle loro spalle con didattici fasci di luce. Ora, quando nel corso degli umani eventi si rende necessario ad alcuni distanziarsi da costumanze perniciose dilaganti nel corpo sociale, un giusto rispetto per le opinioni dell’umanità richiede che costoro rendano note le cause che li costringono a tale opposizione.
Negli ultimi tempi abbiamo constatato quanto segue:
- L’utilizzazione del lucido si rivela quasi sempre inopportuna. Il ricorso smodato alla lavagna luminosa, lungi dal favorire l’attenzione del pubblico, lo distrae, lo confonde, lo annoia;
- la tendenza all’imitazione porta sempre più persone a individuare nell’uso del mezzo tecnico l’essenza stessa della lezione o della conferenza;
- questo meccanismo produce i suoi frutti peggiori nella scuola: si sono visti studenti di quarta commercio mettere tutta la loro relazione su lucido, testo compreso, con l’intenzione di proiettarla in sincronia con l’esposizione. Viene così a cadere sia il senso del lucido, sia quello dell’esposizione orale;
- senza arrivare a tali eccessi, il lucido costituisce sempre più spesso una componente ridondante dell’esposizione. Si proiettano frasi pronunciate o si pronunciano frasi proiettate;
- la lucidomania sfrenata porta a esiti sempre più sconcertanti, come la proiezione del titolo della conferenza, o dei ringraziamenti, o di altre comunicazioni relativamente semplici che non richiedono affatto un supporto visivo;
- particolarmente temibili sono le conferenze e le relazioni in équipe, laddove un relatore lucidista agisce d’intesa col collega oratore avvicendando un lucido all’altro a ritmi forsennati.
Quali siano le pulsioni profonde che determinano tali comportamenti è difficile dire.
Il lucido può dare l’illusione di sostituire una parola ormai privata di ogni valore, o di fare da stampella a un edificio argomentativo senza fondamento: in questo caso, per un abbaglio semantico, il relatore crede con il lucido di portare lucidità al suo discorso. Una spiegazione ancor più legata allo Zeitgeist è l’illusione di efficienza data dal retroproiettore. Non sorprende che i primi casi documentati di overdose da lucido si siano manifestati in ambienti bancari e aziendali e nelle facoltà universitarie legate a una visione efficientistica della vita umana. L’immancabile uso dei lucidi in ogni relazione avente per oggetto la qualità totale o il new public management ha quindi una forte natura metalinguistica. Più in generale, l’abuso del lucido può essere generato dal culto della tecnica, dall’illusione di potenza che l’uso di ogni mezzo tecnico, sofisticato o grezzo che sia, produce nell’homo occidentalis. Questo culto porta a manifestazioni feticistiche preoccupanti, come la conservazione dei lucidi in apposite mappette di plastica che vengono stipate in particolari raccoglitori. Nei casi più gravi questi raccoglitori sono trasportati in valigette di materiale plastico con chiusura a combinazione. Come il recente fenomeno del cargo-cult presso certe popolazioni oceaniche, il transparency-cult nasconde forse pregnanti significati antropologici: potrebbe essere una delle tante risposte disordinate e socialmente dannose alla crisi di valori dell’Occidente e alla fine della Storia.
Ma non è questa la sede per approfondire l’analisi di un fenomeno tanto complesso ed è tempo di passare a proposte concrete. Quale modesto contributo al superamento di questa fase di lucidomania, proponiamo un semplicissimo quanto rigoroso pentalogo:
1. Usa il lucido solo quando serve, cioè quasi mai.
2. Proietta solo lucidi ben leggibili: parole e cifre devono essere sufficientemente grandi, nitide, distanziate.
3. Prima dell’esposizione, o perlomeno durante la stessa, verifica la leggibilità dell’immagine e regola proiettore e schermo a vantaggio di chi ti sta seguendo.
4. Rinuncia allo stucchevole espediente di proiettare un indice o un elenco di affermazioni liberando progressivamente l’immagine, riga dopo riga. Questo trucco produce fastidio, non attesa.
5. Combatti lo spreco. Non produrre lucidi inutili con il titolo della conferenza, o con elementi esornativi di dubbio gusto come vignette. I lucidi costano. Evita di tener acceso l’apparecchio oltre il tempo strettamente necessario. Risparmierai energia, eviterai un fastidioso rumore di sottofondo (ventilazione), eliminerai un elemento di distrazione (la luce o l’immagine inutilmente proiettate).
In ogni caso la regola d’oro è una sola, ed è quella che apre il pentalogo:
«Usa il lucido solo quando serve, cioè quasi mai».
D’ora innanzi noi, firmatari del manifesto, ci impegneremo a sottolineare immancabilmente ogni violazione di questi semplici principi.
(giugno 1997)
Scarica Manifesto per la delucidazione
2. Una modesta proposta
Dopo ben otto mesi di silenziosa macerazione, di discreta fermentazione, di muta distillazione, si è finalmente sentita in Collegio la voce grave e baritonale del Rappresentante dei docenti nel Consiglio di Direzione. Per dar seguito e costrutto alla profonda preoccupazione per i destini della Scuola Pubblica che da cotanta meditazione promana, proponiamo l'adozione del seguente Regolamento.
Regolamento sull'abbigliamento e la tenuta degli studenti dell'Istituto Cantonale di Economia e Commercio (RATSICEC)
A. Della tenuta degli studenti. Dall'alto al basso.
1. Sono vietati i capelli tinti o sbiancati, le creste alla mohicano (o alla punk), i codini
2. Sono rigorosamente banditi orecchini, naselli e labbrelli
3. La sbarbatura sia confacente alla dignità dell'istituto; non saranno tollerati tronconi di pelo superiori a millimetri due
4. Non sono ammesse magliette (T-shirt) con due o più colori, massime se complementari
5. È tassativamente vietata l'esposizione delle ascelle; di conseguenza non sono tollerate le canottiere
6. Si usino pantaloni della misura appropriata, evitando l'uso di taglie XL o XXL. In ogni caso il cavallo del pantalone deve aderire al perineo
7. Si concede l'uso del pantalone corto soltanto se la concentrazione pilifera del polpaccio è inferiore a 17-20 bulbi per cm2 e quando la temperatura esterna supera i 28° C. La direzione mette a disposizione di tutti gli utenti uno scanner-pilometro (facilmente installabile sia su PC sia su Macintosh)
8. In ogni caso il pantalone corto dev'essere di taglio classico e di colore grigio, crema o kaki, meglio se abbinato con calze al ginocchio (alla sir Baden Powell)
9. È vivamente sconsigliato il sandalo, con o senza calze. L'uso di ciabatte, pianelle o scarpe sportive porterà all'immediata sospensione dalle lezioni.
B. Della tenuta delle studentesse. Dall'alto al basso.
1. Sono bandite le tinture in colori non naturali
2. La direzione potrà autorizzare in via eccezionale, per motivi etnici o medici, acconciature particolari, come le treccine afro e il taglio raso
3. Il trucco di occhi, gote e labbra deve essere timorato e onesto
4. La scollatura al seno non ecceda i 4 cm lineari dall'inizio della fossa intermammellare al bordino della camicetta
5. L'esposizione dell'ombelico darà luogo a tre giorni di sospensione
6. Si ammette l'uso di anelli metallici solo sul lobo auricolare, e in numero di uno per lato
7. Eventuali tatuaggi vanno adeguatamente ricoperti
8. È ammesso uno spacco fino a 15 cm per gonne la cui altezza non sia inferiore ai 78 cm.
9. L'altezza massima ammessa del tacco è di hp/75 x 2,47 (dove hp sta per l'altezza della persona, così come dichiarata sui documenti ufficiali di identità)
10. Gli zoccoli sono vietati, così come i sandali con quoziente di copertura inferiore al 45%.
Noi sottoscritti, docenti dell'istituto, proponiamo l'adozione immediata del presente regolamento
(giugno 1999)
Scarica SCC Modesta proposta
3. Lettera inutile di tre ex colleghi al plenum dei docenti della SCC
Anche se abbiamo disertato i più recenti standing dinner, non abbiamo rotto del tutto le relazioni con la scuola che ci ha visti attivi, come insegnanti di storia, per molti anni.
Abbiamo saputo del taglio di un’ora di storia. Ci sembra giusto comunicare al collegio dei docenti il nostro disappunto e accompagnarlo con qualche considerazione, pur coscienti dell’inutilità di questo gesto. Ci rendiamo pure conto che alcuni riferimenti contenuti in questa lettera sfuggiranno ai colleghi più giovani. Pazienza: se ne potrà forse cogliere almeno il senso complessivo.
Non conosciamo, e in fondo preferiamo non conoscere, gli elementi puntuali che hanno condotto alla sciagurata decisione: crediamo infatti che questo esito sia, indipendentemente dalle ragioni contingenti, il frutto di un clima e di un percorso che abbiamo vissuto personalmente nella sua lunga fase iniziale. È un percorso che ha portato la SCC al costante impoverimento di quella dimensione che per comodità chiamiamo “culturale” (a vantaggio di quella che, sempre per comodità, chiameremmo invece “professionale”).
Sul terreno di quelle che (ancora una volta per comodità) chiamiamo “scienze umane”, la SCC si porta dietro un’eredità rispettabile, e basterebbe ricordare la figura di uno storico dell’economia come Bruno Caizzi (che invece di cianciare di interdisciplinarità la portava dentro di sé). Eredità che da sostanziale si è progressivamente trasformata in una sorta di sterile fiore all’occhiello, fino ad arrivare al punto in cui, probabilmente, quel fiore non serve nemmeno più.
Per quanto concerne la storia, nell’ultimo trentennio di passi indietro se ne son fatti parecchi. Un primo momento che vogliamo ricordare è l’introduzione, negli anni Ottanta, del Corso pluridisciplinare di scienze umane (CPSU), che di fatto aveva escluso la storia dal quarto anno. In quel momento, è bene sottolinearlo, la storia è stata l’unica tra le quattro materie coinvolte a cedere un’ora. Questo ha anche comportato lo slittamento della trattazione del Novecento al penultimo anno. Niente più storia in quarta quindi, con una drammatica perdita di incidenza nell’anno più fecondo per la formazione scolastica di un cittadino colto e pensante. Temi come l’imperialismo, la società di massa, i totalitarismi, la decolonizzazione – con forti ricadute sull’“educazione alla cittadinanza” e sulla formazione politica in senso lato – erano ormai relegati in terza. La SCC è oggi l’unica scuola medio-superiore che non prevede un insegnamento disciplinare di storia nell’ultimo anno.
Poi è arrivata, con l’avvio del terzo millennio, l’ultima riforma, la penosa stagione del cosiddetto “insegnamento per obiettivi”, con sfiancanti quanto inutili esercizi di definizione e tassonomizzazione, così cari agli scienziati dell’educazione, che ci hanno consumato non poco (sia detto tra parentesi: abbiamo resistito e non ci siamo lasciati distogliere più di tanto dalla sostanza delle cose). Per quanto concerne la storia e le scienze umane, quella riforma ha poi portato al passaggio dai CPSU ai “Progetti interdisciplinari”: non solo li abbiamo visti nascere, ma ne abbiamo anche accompagnato la gestazione, non osteggiandoli per quel che potevano offrire di buono rispetto ai CPSU, cercando di salvare il salvabile – dentro quel nuovo contenitore che pure suscitava giustificate perplessità – del senso e del ruolo della storia. Non ci siamo mai opposti, insomma, come gruppo di storia, a interventi strutturali che pure riducevano la nostra autonomia disciplinare. Ora, ciliegina, la cancellazione dell’ora. Se prima, con grande fatica, nel primo anno si potevano metter lì alcuni mattoni (come la nascita delle grandi religioni monoteiste, la fusione tra mondo romano e culture germaniche, la “nascita dell’Europa”, le trasformazioni del Basso Medioevo) fondamentali per l’edificazione del discorso successivo, ora questo diventa impossibile. Come risposta ci pare più che ragionevole l’abbandono della risibile ora residua in prima e la riconquista di due ore di storia in quarta (e perché non tre?).
Detto della storia, è importante tornare al contesto più generale: il processo di marginalizzazione della cultura umanistica nella SCC, e per certi aspetti della cultura tout-court (usiamo il termine “cultura” nel senso comune, non antropologico) si è accompagnato, negli ultimi trent’anni, a un progressivo scivolamento delle pratiche gestionali verso la soluzione tecno/burocratica dei problemi. Le difficoltà di comunicazione, lo sfaldarsi progressivo di una rete relazionale e conviviale un tempo ben radicata, il gonfiarsi quantitativo della sede, la non facile realtà di un’utenza mutante, tutto questo lo si è voluto affrontare a suon di regolamenti, di macchine informatiche, di interfacce disumane. Un abbaglio. I problemi di gestione di una scuola non si possono risolvere rinunciando all’ascolto, al confronto politico e culturale, alle relazioni. Infatti, più si moltiplicavano schermi, megaschermi, password, carte personali per la fotocopiatrice, beamer e disposizioni normative, peggio andavano le cose. Quanto alle scelte programmatiche strategiche: l’importante era ormai comunicare, non importa che cosa, con il rischio di finire per comunicare il nulla.
Certo la SCC non è un caso unico, si tratta di una tendenza generale della scuola e della società. Bisogna però riconoscere a questa sede un ruolo d’avanguardia in quelle dinamiche perverse, a partire dalle prime esperienze entusiastiche di applicazione della logica aziendale del controllo di qualità (ricordiamo, alla metà degli anni Novanta, i plenum grotteschi dedicati al TQM, il Total quality management, e nel 2002 la certificazione ISO 9001). Per venire all’oggi, anche il quadro di formazione continua che si va delineando, basato sui crediti ECTS e su un’offerta monopolizzata del DFA – al quale vorremmo vedere le direzioni scolastiche opporsi gagliardamente – va in questa stessa direzione. Come anche, per tornare all’incipit di questa lettera inutile, gli standing dinner. A differenza delle arcaiche e fumose cene fuori sede, queste agapi misurate, scomode e di corto respiro, sono lo specchio di una “cultura aziendale” che può benissimo fare a meno della storia, dei suoi stimoli, dei suoi insegnamenti e, perché no, della sua inutilità. Perché, su questo possiamo concordare, la storia non è, come usa dire oggi, “spendibile sul mercato”.
Un cordiale saluto a tutti, e in particolare ai colleghi del gruppo di storia
Danilo Baratti, Patrizia Candolfi, Gianfranco Pescia
Lugano, 21 marzo 2011
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