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Gridare alto e forte: non dimenticate! (2018)

Guido Rivoir e l'Azione posti liberi per i profughi cileni

(Danilo Baratti, «Gridare alto e forte: non dimenticate». Guido Rivoir e l’Azione posti liberi, in Lugano Città Aperta, a cura di Pietro Montorfani, Giacomo Jori e Sara Garau, Lugano, Archivio storico Città di Lugano, 2018, pp. 133-142)

 

Guido Rivoir

Rivoir luganese

Guido Rivoir è stato scelto tra i Giusti di Lugano per il suo impegno a favore dei cileni perseguitati dalla dittatura militare di Pinochet dopo il colpo di stato dell’11 settembre 1973: tra il 1974 e il 1976 ha infatti coordinato l’Azione posti liberi, grazie alla quale più di quattrocento profughi hanno trovato asilo e sicurezza. Ma prima di parlare delle cose più importanti – e cioè di quel movimento corale fuori dall’ordinario, e del “giusto” che ne è stato l’emblema – si può dire qualcosa sulla “luganesità” del piemontese Guido Rivoir.

All’epoca dell’Azione posti liberi Guido Rivoir è a Lugano da quasi quarant’anni. Vi era giunto nel 1937, con la moglie Tea Ginoulhiac e cinque figli (a Lugano ne nasceranno altri due), in qualità di pastore “prestato” dalla Chiesa valdese alla Comunità evangelica di lingua italiana e francese di Lugano e dintorni. Nel gennaio del 1951 ottiene la cittadinanza luganese e svizzera. Attivo essenzialmente nell’ambito della sua comunità, la sua voce e il suo volto diventano famigliari anche al di fuori, perché Rivoir è il primo pastore a predicare alla radio, dal 1952, e poi in televisione, dal 1963.

Anche in seguito alla visibilità datagli dall’Azione posti liberi, il Partito socialista autonomo gli propone di candidarsi alle elezioni comunali. Ormai da anni in pensione, Rivoir – che aveva accuratamente evitato, nella sua funzione, di schierarsi politicamente – accetta e nel 1976 entra nel Consiglio comunale di Lugano, come indipendente sulla lista PSA-PdL. Tre anni dopo entra anche in Gran Consiglio e ha l’onore, già toccatogli a Lugano, di presiedere l’apertura della legislatura in qualità di deputato più anziano.  Lascia il parlamento cantonale dopo un biennio, a ottant’anni, mentre rimane in Consiglio comunale fino al 1985.

Saranno, alla fine della sua lunga vita, quasi settanta i suoi anni luganesi, vissuti attivamente ben oltre l’età canonica del pensionamento.

L’Azione posti liberi

L’iniziativa a favore dell’accoglienza dei profughi cileni era stata avviata già all’inizio di dicembre del 1973 – è importante ricordarlo – da Cornelius Koch, allora parroco supplente a Vogorno, insieme a un comitato formato soprattutto da membri dell’Associazione Longo Maï: la Gesellschaft der Freunde Chiles.  Koch aveva preso ispirazione dall’Azione posti liberi organizzata dal pastore Paul Vogt proprio in quell’estate del 1942 in cui il Consiglio federale, all’insegna del motto «La barca è piena», aveva deciso un irrigidimento della politica d’asilo[1]. Il protestante Paul Vogt è rimasto nella storia come “il pastore dei rifugiati” e al cristiano cattolico Cornelius Koch – morto nel 2001, che qualcuno ancora ricorderà per la sua regolare presenza in Ticino come animatore del Primo agosto alternativo a Chiasso – è stato attribuito un appellativo affine: “abbé des réfugiés” o “Flüchtlingskaplan”[2].

L’appello lanciato il 4 dicembre dalla Gesellschaft der Freunde Chiles, che chiedeva di mettere a disposizione alloggi per i profughi cileni, aveva avuto un grande successo: tra comuni, parrocchie e singoli cittadini, nel giro di pochi giorni i posti offerti erano oltre 3000. Ma il Consiglio federale, che aveva fatto giungere in novembre un volo charter da Santiago con 200 rifugiati (per lo più stranieri rifugiati nel Cile di Allende), non voleva permettere altri arrivi. 

Come spesso capita nelle vicende della storia e della vita, Guido Rivoir si è trovato a coordinare l’Azione posti liberi un po’ per caso. All’inizio di febbraio del 1974 Cornelius Koch – entrato in conflitto sia con la conferenza episcopale, sia con il consigliere federale Furgler – decide di mettersi in ombra e di passare il coordinamento a una persona affidabile ma meno profilata. Guido Rivoir, sollecitato dal figlio Dario, assume quel ruolo e si rivela, per le ragioni che vedremo, la persona ideale. 

Il 23 febbraio arrivano a Ginevra i primi cinque profughi, giunti con un semplice visto turistico. Ad attenderli all’aeroporto, insieme a Jean Ziegler e all’avvocato Payot della Lega per i diritti dell’uomo, c’è anche Rivoir. Il giorno stesso il Consiglio federale decide l’introduzione del visto obbligatorio per i cittadini cileni, misura che suscita proteste varie, tra cui quella di 600 pastori e dei comitati di solidarietà con le vittime della giunta cilena. Oltre 7000 cittadini firmano in poco tempo un appello contro la misura restrittiva.

In Ticino la solidarietà si esprime anche a livello istituzionale: già il 7 febbraio il Gran Consiglio aveva accolto una risoluzione che invitava il governo a promuovere l’accoglienza di profughi cileni, e il 4 marzo lo stesso Gran Consiglio decide di versare la diaria all’Azione posti liberi, invitando il Consiglio di Stato ad arrotondare la cifra fino a un importo di 10 mila franchi.

Il 16 marzo ha luogo un’imponente manifestazione nazionale. Una settimana dopo Rivoir incontra il capo della polizia degli stranieri, Hans Mumenthaler: «Ci ricevette dopo averci fatto aspettare un’ora per intimorirci. Mandò in avanscoperta un suo collaboratore, col quale stavamo cercando un’intesa. Poi giunse, dicendo di avere solo pochi minuti di tempo. Ne approfittò per dirci che eravamo degli incoscienti e degli anarchici... il tono cresceva e persi la pazienza. Gli dissi che obbedivo alla mia coscienza ed avrei continuato come sin ora, anche a costo di fare entrare per sentieri di montagna altri cileni. Se volevano sorvegliare la frontiera avrebbero dovuto mobilitare o fare perdere il lavoro ai numerosi frontalieri che al mattino venivano da Chiasso... Ci lasciammo con i ponti rotti» (MV175[3]). Queste affermazioni da un lato mostrano la tensione tra l’Azione posti liberi e l’autorità federale, dall’altro annunciano la via che prenderà l’azione, quella dell’illegalità.

Rete clandestina e diplomazia

Rivoir si muove su due fronti. Sul piano organizzativo si tratta di attivare una catena clandestina da Santiago del Cile al Ticino. Va lui stesso due volte a Buenos Aires per verificare la situazione e stabilire i contatti, e coinvolge poi nell’operazione figure del mondo valdese. Per sommi capi, le cose funzioneranno così: grazie a biglietti d’aereo in bianco anticipati da Roberto Malan ­–­ un nipote di Rivoir, già capo della Resistenza nelle valli valdesi e ora gerente di un’agenzia di viaggi – i profughi, protetti da ambienti della Chiesa cattolica cilena e giunti a Buenos Aires per vie non note, prendono il volo per Milano, dove sono attesi da militanti dell’Azione posti liberi (riconosciuti per la “busta gialla”, diventata proverbiale) e accompagnati direttamente in Ticino (il passaggio della frontiera può avvenire in treno, in auto, in barca, a piedi) o accolti temporaneamente presso la comune di Cinisello Balsamo, di cui facevano parte alcuni valdesi, o in Piemonte. Una volta in Svizzera, i profughi presentano la richiesta d’asilo, in attesa della quale vengono ospitati in molte case private del Ticino o di altri cantoni. E qui è bene ricordare, ancora una volta, che se Guido Rivoir è il volto pubblico dell’organizzazione, a questa macchina solidale partecipano attivamente, in forme diverse, decine e decine di persone. Giuste a loro volta.

L’altro fronte è quello “diplomatico”. Rivoir incontra a tre riprese Kurt Furgler, il capo del Dipartimento federale di giustizia e polizia. Sono incontri difficili in cui Rivoir riesce abilmente ad alzare il numero degli ammessi, mettendo Furgler davanti al fatto compiuto, mentre il Consigliere federale cerca di evitare, con le sue faticose concessioni, di perdere la faccia. Sullo sfondo c’è lo spettro della seconda iniziativa anti-stranieri (sarà respinta nell’ottobre 1974), che Furgler utilizza per giustificare la sua politica di chiusura. A mettere fine al braccio di ferro e all’Azione posti liberi saranno i costi dell’operazione (soprattutto dei biglietti d’aereo), interamente a carico dell’organizzazione. È stata, quella finanziaria, l’arma più subdola e potente del Dipartimento di polizia, che teneva in sospeso per mesi la concessione di visti richiesti al consolato di Milano – costringendo l’organizzazione a sobbarcarsi il mantenimento dei profughi, impossibilitati a lavorare nell’attesa – e facilitava per contro la concessione di visti per il ricongiungimento famigliare accollandone però i costi all’organizzazione, con il deliberato obiettivo di dissanguarla[4].

Nel luglio del 1975 viene quindi sospeso l’arrivo di nuovi profughi, a condizione che il governo evada tutte le pratiche ancora in corso: un ultimo compromesso raggiunto da Rivoir. L’Azione posti liberi vota l’autoscioglimento in un’assemblea del 30 maggio del 1976, con la consapevolezza di non poter fare di più ma di aver fatto molto: in due anni e mezzo ha permesso a 438 cileni di trovare asilo in un altro paese. Di questi, almeno 393 sono stati accolti in Svizzera.

Nell’aprile del 1974 era stato aperto un procedimento penale contro Guido Rivoir e una ventina di cileni per «infrazioni all’art. 23 della Legge federale sulla dimora e il domicilio degli stranieri del 26.3.1931». La vicenda si chiude il 20 dicembre dello stesso anno con il proscioglimento di tutti i denunciati. Nel decreto di abbandono, firmato dal procuratore pubblico Mario Luvini, si legge tra l’altro che «il fine della ‘Azione posti liberi’ era ed è esclusivamente di carattere umanitario, in quanto consistente nell’assicurare un rifugio sicuro ai perseguitati cileni presso famiglie svizzere», che «l’intento di prestare concreto soccorso ai profughi perseguitati e alle loro famiglie appare manifestamente onorevole anche alla luce dello spirito della legislazione e delle tradizioni svizzere in questa materia», e che «le denunce di violazioni dei diritti individuali fondamentali da parte della giunta militare cilena furono numerosissime e la pubblica stampa ne riportava quasi quotidianamente, assieme a fotografie che, di per sé sole – come quella dello stadio di Santiago gremito di prigionieri politici – testimoniavano in modo inequivocabile della tragedia in corso nel Cile»[5]. Un primo passo, questo decreto di abbandono, verso un Giardino dei giusti di là da venire.

Le radici di una scelta

Detto dell’operazione a grandi linee[6], qui voglio soprattutto spiegare come mai Guido Rivoir si è trovato così pronto per quel ruolo. Se Rivoir potesse ancora parlare, direbbe molto probabilmente che a prepararlo per quel compito, e ad assegnarglielo, è stata la Provvidenza, da lui spesso chiamata in causa. Nella mia condizione di storico non credente, devo muovermi su altre basi, pur riconoscendo che la sua azione è stata, nell’accezione comune del termine, provvidenziale.

Potrei cominciare a ricordare che il pastore Guido Rivoir apparteneva alla Chiesa valdese, che proprio per la sua lunga storia di persecuzione si è mostrata più di altre, e ancora si mostra, sensibile ai perseguitati. Non è un caso che la Chiesa Valdese sia oggi in prima linea, insieme alla comunità cattolica di Sant’Egidio, nell’organizzazione di corridoi umanitari che permettano, d’accordo con le autorità politiche, l’arrivo in sicurezza di profughi dal Libano e dal Marocco. E Rivoir non era solo un valdese, ma un valdese “delle Valli”, cresciuto quindi in un territorio che conserva in sé la memoria viva della persecuzione, dei massacri, dell’esilio, dell’avventuroso ritorno, del ghetto alpino e, infine, della piena emancipazione.

Un’altra radice del suo senso di dedizione e giustizia è certamente la famiglia. A questo proposito si può ricordare che anche suo fratello Silvio, di qualche anno più giovane e altrettanto longevo, è citato nel sito della foresta dei Giusti (www.gariwo.net). Impiegato dell’anagrafe di Torre Pellice, produce decine di documenti falsi permettendo a parecchi ebrei di salvarsi. Scoperto nel marzo del 1944, parte come lavoratore volontario in Germania e finisce in un campo di concentramento, da dove riesce a fuggire nei giorni della liberazione. Omaggiato dall’amministrazione comunale di Torre Pellice e dalla comunità ebraica torinese in occasione del suo centesimo compleanno, nel 2006, ha ripetuto: «non ho fatto nient’altro che il mio dovere» (MV 193). Come avrebbe detto anche Guido.

Anche  Lo stesso Guido Rivoir ha prodotto documenti falsi per proteggere degli ebrei, ma in ambito religioso. Lo ha raccontato in un’intervista del 2001 (a 99 anni compiuti) per il progetto nazionale archimob, che raccoglieva testimonianze orali sulla Svizzera negli anni della seconda guerra mondiale: una decina di ebrei, giunti a Lugano con documenti falsi forniti da un valdese di Firenze, necessitavano di un certificato di battesimo per emigrare verso gli Stati Uniti. «Mi rifiuto di battezzarvi ma vi dò il certificato», dice Rivoir, e manipola i registri della Chiesa (MV194). Rigoroso nei confronti della sua fede, non impartisce finti battesimi, ma concede false attestazioni salvifiche.

Ho ricordato la vicenda di Silvio per suggerire il ruolo che può aver avuto la famiglia. Un figlio di Guido Rivoir, Eugenio, a sua volta pastore, ha detto in occasione dei 90 anni di suo padre: «in questa casa, anche se non sempre è stata espressa esplicitamente, la riflessione teologica ha girato nel tempo e nello spazio, fin dal tempo del nonno Alessandro che era – quando è nato il papà – maestro evangelista a Champ de Praz, cioè una persona che aveva deciso di prendersi cura di un gruppo di persone nella dispersione e aveva deciso – come si diceva allora – di educarli alla fede e alla solidarietà espressa nel Vangelo» (MV197). Nella sua famiglia, economicamente povera, Guido ha respirato dignità e solidarietà.

Anche il periodo degli studi a Firenze, alla facoltà valdese di Teologia, tra il 1920 e il 1922, lascia tracce importanti per il seguito. Ecco qualche frase in proposito: «Andai a Firenze a studiare, senza una linea politica [...]. A Firenze incontro il fascismo col suo vero volto [...] leggo delle squadracce fasciste all’opera. Le vedo in azione anche sul posto, vigliaccamente e prepotentemente. Il governo le protegge, per combattere il socialismo; è quello che non mi va giù nel mio concetto di giustizia e di democrazia. Il governo aiuta i malfattori. [...] Non posso che essere antifascista» (MV57, 59).

A Firenze il giovane Rivoir evita il tronfio professor Comba, tirchio amministratore della facoltà e pessimo docente. È invece affascinato da Giovanni Luzzi, fine biblista di origini engadinesi, che aveva aperto nel quartiere di San Frediano una cucina per i poveri e un dispensario medico. «Le sue lezioni, scrive Rivoir, erano interessantissime; spesso ad una nostra domanda passava di palo in frasca e ci dava lezioni improvvisate su altri argomenti – e non sempre teologici – di alto interesse» (MV55). Sul contrasto tra il lavoro intellettuale alla Facoltà e l’impegno sociale, Luzzi scriverà nella sua autobiografia: «Là passavamo formule per i lambicchi della Dogmatica, proteggevamo il cristianesimo co’ reticolati di ragionamenti apologetici, e difendevamo con la spada fiammeggiante della Polemica i capitoli e gli articoli delle Confessioni di fede protestanti dagli anàtemi del Concilio di Trento; qua, invece, vivevamo il caldo, pratico, dolce cristianesimo di Cristo, tutto amore, tutto simpatia, tutto azione»[7]. Rivoir ha sempre guardato al “qua”.

Quasi alla fine degli studi, Rivoir è espulso dalla facoltà valdese per un conflitto tra gli studenti, di cui era portavoce, e l’amministratrice: «prima di allontanarmi con le valigie sfogo la mia rabbia con un tremendo calcio che spezza la porta. E son fiero di quel calcio che simboleggia da una parte il rifiuto che bisogna opporre a tutte le ipocrisie, a tutti i soprusi, a tutti i pietismi, e dall’altra parte le porte aperte a tutte le idee nuove» (MV67). Anche in questo gesto giovanile di reazione orgogliosa di fronte a un’ingiustizia subita c’è molto di Rivoir.

Un pastore socialmente impegnato

La Chiesa valdese è alla ricerca di pastori che partecipino alla colonizzazione piemontese avviata in Argentina e Uruguay e ciò facilita la reintegrazione del ribelle, che alla fine può dare gli esami alla facoltà di teologia. E subito parte. I sette anni passati nel Río de la Plata, nell’accompagnamento spirituale delle comunità valdesi già insediate e nella creazione di nuove colonie, sono una tappa importante per lo sviluppo delle sue attitudini organizzative, in una situazione particolarmente difficile, fatta anche di lunghe distanze percorse a cavallo, di incontri con serpenti, di attraversamenti di torrenti in piena. 

Il ritorno alle Valli valdesi, a Prarostino, nel pieno degli anni Trenta, riapre il conflitto con il fascismo: «convocato dal podestà per comunicarmi che avremmo dovuto, il prete ed io, incoraggiare la gente a consegnare l’oro che possedeva, ed in particolare gli anelli nuziali, per la patria impegnata nella guerra di Abissinia, avevo detto, in uno dei miei incontrollabili accessi di rabbia e di sdegno, che se mi avessero chiesto l’oro per il vangelo o per combattere la lebbra lo avrei fatto, ma che non me la sentivo di aiutare a bombardare con l’iprite» (MV117). Come Rivoir, buona parte dei pastori valdesi non partecipa alla raccolta dell’“oro per la patria”. La Tavola valdese – l’esecutivo della chiesa valdese – è tuttavia assai prudente, più propensa a cercare un accomodamento con il regime. Quando la Tavola decide di mandare Rivoir a Lugano, è anche per allontanare una figura un po’ troppo battagliera: «motivi politici, e l’incapacità di sopportare un’opposizione furono quelli che mi allontanarono dall’Italia. Ma fu per me provvidenziale partire. 
Eravamo nel 1937, alla vigilia dello scoppio della seconda grande guerra mondiale. Le Valli e Prarostino furono più tardi luogo di azione dei partigiani e vi furono villaggi bruciati, fucilazioni. Se fossi rimasto, o per i miei precedenti di antifascista, conosciuti, o per il fatto che ero zio dei Malan, capi partigiani, avrei dovuto o fuggire o nascondermi (ma dove, e come, con tutta la numerosa famiglia?), o sarei stato certamente internato, forse imprigionato, forse deportato» (MV124).


Partenza provvidenziale per la famiglia ma anche, dirà  Rivoir in una lettera del 1984, per quel che ha potuto fare a Lugano: «di qui ho potuto molto meglio aiutare, e nel periodo dei partigiani, e più tardi i Cileni. Ed ancora qui è la provvidenza che si è servita della mia testardaggine» (MV169). Guido Rivoir dalla Svizzera cercherà di aiutare gli abitanti delle Valli sia durante la guerra (con un rischioso viaggio clandestino in cui prende contatti con la Resistenza), sia nel dopoguerra, raccogliendo fondi, organizzando vacanze per i bambini vittime del conflitto, promovendo iniziative economiche e culturali. 

«Io ho sempre considerato la Chiesa quale sorgente di opere sociali, là dove necessita aiuto. Tutto il mio ministero era stato concepito in questo senso. In America ero riuscito a fare qualcosa: nuove colonie, società valdese di colonizzazione. A Prarostino avevo potuto costruire una sala per riunire i giovani in ambiente diverso dalla bettola [...]. Avevo anche fondato la Pro Valli, che nel mio pensiero doveva essere un focolaio di iniziative: di cooperazione tra produttori per introdurre nuove sorgenti di guadagno (more, lamponi, cooperative lattiere) [...] ma dovetti abbandonare questa attività venendo a Lugano. Qui mi si presentava un’altra occasione di un’opera sociale, questa volta a favore degli anziani» (MV149-50). E a Lugano mette in piedi una “casa per persone anziane evangeliche” nel 1940 e un piccolo asilo infantile l’anno prima. Una parte del suo gregge luganese, e soprattutto i finanziatori basilesi della comunità, criticano questo attivismo sociale di Rivoir. «Non c’è in me la stoffa del pastore come l’intendono alcuni miei parrocchiani. – scrive nel 1947 alla Tavola valdese – Ho bisogno della libertà assoluta di agire seguendo l’impulso del cuore e la voce della coscienza» (MV159) e pensa, in quello e in altri momenti, a un ruolo che possa dare più spazio alla sua intraprendenza. Ma rimane pastore della Comunità evangelica di lingua italiana e francese fino al suo pensionamento[8].

Epilogo

E così, riavvicinandomi pian piano ma per salti agli anni Settanta, ho messo in luce alcune delle caratteristiche che fanno di Guido Rivoir la persona ideale per prendere in mano l’Azione posti liberi avviata da Cornelius Koch: in termini generali, una grande sensibilità sociale, un forte senso della giustizia, un radicato antifascismo, un notevole spirito di intraprendenza, uno slancio battagliero quando sente di essere nel giusto, buone capacità comunicative e di organizzazione. Ma poi, più strettamente in relazione con la vicenda dei profughi cileni, la conoscenza del Sudamerica e dello spagnolo e gli stretti contatti col mondo valdese. Insomma, come dicevo all’inizio, l’uomo giusto per quella circostanza. Oltre che giusto nel senso attribuitogli da chi l’ha scelto per il giardino di Lugano.

Rivoir era “pronto” ad accettare quell’incarico anche per l’intensità con cui aveva seguito la parabola dell’esperienza cilena: «Quando Pinochet trucidò barbaramente il presidente eletto e legittimo del Cile, Allende, e scatenò una crudele persecuzione contro gli oppositori ne soffrii moltissimo [...]. Era la prova che il dominio del dollaro nel mondo riusciva sempre, o con la corruzione, o con la violenza, ad imporsi alla miseria di un popolo. E mi sentii ferito per questo ideale infranto di libertà acquistata liberamente coll’urna. Dappertutto vi furono manifestazioni di solidarietà con gli oppressi ed anch’io, che ufficialmente non avevo mai militato in partiti politici, vi partecipai» (MV171).

Chiudo con alcune righe indirizzate da Guido Rivoir, a inizio novembre del 1973, al Comitato ticinese di sostegno alla resistenza cilena, il cui finale sembra prefigurare il suo impegno nei mesi che verranno:

«Sono molto spiacente di non poter essere presente alla riunione dei simpatizzanti dei democratici cileni perseguitati. Doveri di famiglia me lo impediscono. Non è la prima volta che un uomo simbolo del progresso, della legalità e della democrazia viene assassinato, e con lui la libertà e la miglior giustizia sociale [...] Ma la gente dimentica presto [...] Si dimentica Matteotti, la messa in scena dell’incendio del Reichstag, i mori di Franco, la pagliacciata del non intervento in Ispagna, si dimenticano le camere a gas. Troppo si dimentica, e noi che abbiamo visto da vicino il Fascismo cosiddetto bonaccione ma crudele, i roghi delle camere del lavoro, la guerra di Spagna prologo al massacro mondiale, dobbiamo gridare alto e forte: non dimenticate. Non dimenticate gli altri martiri, non dimenticate Allende, non dimenticate la reazione, assassina di popoli, ultimo fino ad oggi il Cile. Non dimenticate, ma come far sì che non si dimentichi? Quel poco che ci è concesso fare, facciamolo: dimostrazioni anche silenziose, dignitose [...] Ma soprattutto il Cile insegni: non bastano le parole facili di protesta, non bastano gli slogan estremisti: sono utili a volte ad affermare un credo politico, una via sociale, ma attenti a non prestare il fianco alla reazione che gongola quando può parlare di opposti estremismi. A ricordo che duri, azione perseverante di soccorso ed aiuto ai cileni oppressi, disponibilità per un reale sacrificio in soccorso alla libertà, quando è conculcata, nel Cile come altrove»[9].

Danilo Baratti

 

due link: https://www.levitedeigiusti.ch , https://www.areaonline.ch/Il-Ticino-che-fu-campione-di-solidarieta-675a6500

 

[1] Si veda la breve voce a lui dedicata nel Dizionario storico della Svizzera (www.hls-dhs-dss.ch).

[2] Claude Braun et Michael Rössler, Un chrétien subversif. Cornelius Koch, l’abbé des réfugiés, Editions d’en bas, Lausanne 2013 (Ein unbequemes Leben. Cornelius Koch, Flüchtlingskaplan, Zytglogge, Basel 2011).

[3] Per evitare troppe note, indico direttamente nel testo (tra parentesi, con MV seguito dalla pagina) i riferimenti all’autobiografia di Rivoir (Guido Rivoir, Le memorie di un valdese, a cura di Danilo Baratti e Patrizia Candolfi, Fondazione Pellegrini Canevascini-Claudiana, Bellinzona-Torino 2012).

[4] Vedi Maurizio Rossi, Solidarité d’en bas et raison d’État. Le Conseil fédéral et les réfugiés du Chili (septembre 1973 – mai 1976), Alphil, Neuchâtel 2008, p. 147-49. In una nota del DFGP del 4 luglio 1974 si legge: «Dans les circonstances actuelles la seule manière pour freiner le dêpot de nouvelles demandes d’asile de la part de l’Action places gratuites est de l’obliger à assumer intégralement les coûts des réunions familiales autorisées».

[5] Su quest’ultimo aspetto il decreto, di oltre venti pagine, riprende anche alcuni interrogatori di polizia in cui i cileni accolti descrivono le vessazioni e le torture subite (Procura pubblica della giurisdizione sottocenerina, Procedimento penale conseguente al rapporto del 26.4.1974 presentato dalla Pubblica sicurezza di Chiasso contro Guido Rivoir & alia).

[6] Per una storia/memoria dell’Azione posti liberi segnalo il bel documentario di Daniel Wyss, La barque n’est pas pleine. Solidarité et désobéissance civile, Climage, Genève 2014 (il DVD contiene pure la versione in italiano). Tra gli intervistati anche Miguel Angel Cienfuegos, di cui si può leggere una vivace testimonianza sull’ubiquità di Rivoir in MV174, nota 304.

[7] Hans-Peter Dür Gademann, Giovanni Luzzi (1856-1948), traduttore della Bibbia e teologo ecumenico, Claudiana, Torino 1996, p. 82.

[8] Almeno in nota segnalo che Rivoir ha avuto un ruolo importante nel consolidamento della presenza protestante in Ticino.

[9] «Cile. Periodico di informazione del Comitato ticinese di sostegno alla resistenza cilena», n. 5, novembre 1973, p. 9.

Americalatina, GuidoRivoir, 2018

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