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La disobbedienza necessaria (2021)

Una sorprendente sentenza della giustizia militare

I processi militari per il caso di Briga

La disobbedienza necessaria

«La giustizia militare sta alla giustizia come la musica militare sta alla musica». Avevo in mente che la battuta fosse di Bertrand Russell. Navigando la trovo invece attribuita a Groucho Marx o a Clemenceau, che l’avrebbe coniata in relazione all’Affaire Dreyfus (ma in questa forma più ampia: «Il suffit d’ajouter “militaire” à un mot pour lui faire perdre sa signification. Ainsi la justice militaire n’est pas la justice, la musique militaire n’est pas la musique»). Sia chi sia l’autore, si tratta di un concetto efficace, che richiama anche l’esperienza di chi – è il caso dei curatori di queste pagine – da quella giustizia ci è passato ai tempi in cui ancora non esisteva la possibilità del servizio civile. Come ogni affermazione perentoria, anche questa può però essere messa in discussione dalla realtà. Casi rari, certamente, come le sentenze emesse recentemente in relazione al drammatico fatto accaduto alla stazione di Briga nell’estate del 2014.

Il fatto

Già il riferimento a Briga avrà risvegliato la memoria di qualche lettore/lettrice: nella notte tra il 3 e il 4 luglio 2014 alcuni profughi siriani sono fermati dalla polizia francese alla stazione di Frasne. Stanno tentando di raggiungere la Francia, per poi passare in Germania, su un treno Milano-Parigi. Tra questi c’è Suha, una ventiduenne incinta di sette mesi insieme al marito e ai tre figli. Condotti al posto di confine di Vallorbe e consegnati alle guardie svizzere, i siriani sono portati a Briga con vari furgoni, per essere poi rispediti in Italia, in applicazione del regolamento di Dublino (avevano presentato la prima richiesta di asilo in Italia). Il treno delle 14.44 per Domodossola è strapieno e il responsabile delle guardie di frontiera decide di caricare i siriani sul treno successivo, che parte due ore più tardi. In quelle due ore Suha ha forti dolori, già iniziati poco prima di arrivare a Briga, sanguina, e i famigliari chiedono ripetutamente alle guardie di chiamare un medico o un’ambulanza, manifestando apertamente la disponibilità a pagare le spese del soccorso. Niente. Indifferenza. Suha, ormai incapace di camminare, è messa con gli altri sul treno. All’ospedale di Domodossola, dove giunge nel tardo pomeriggio, ha un aborto spontaneo e un medico constata la morte del feto. Secondo l’autopsia la morte della bambina è dovuta a carenza di ossigeno, in seguito a un ematoma retroplacentare che ha prodotto lo scollamento parziale della placenta. Con un’assistenza tempestiva le si sarebbe potuta salvare la vita (si parla di un 80% di possibilità).

Il fatto è raccontato – con interviste e ricostruzioni filmate – anche in una puntata di Les coulisses de l’évenementtrasmessa dalla RTS il 10 giugno 2015 (Términus Brigue di Frédéric Choffat e Luis Lema, che ripercorre anche il tragitto della famiglia dalla Siria alla Svizzera: https://www.akkafilms.ch/terminus-brig/ ).

I processi del 2017-18

Nel novembre del 2017 il responsabile di questa operazione, un sergente maggiore delle guardie di frontiera, è sul banco degli accusati del tribunale militare di Berna. Tra le questioni aperte, anche lo stato della bambina alla partenza del treno. «È impossibile sapere con certezza – spiega Céline Zünd in un articolo pubblicato allora su Le Temps – se era ancora in vita al momento dell’arrivo della madre a Briga, informazione cruciale per determinare se l’accusa di omicidio può essere presa in considerazione. L’autopsia colloca il momento della morte a meno di dodici ore dall’aborto, quindi tra le 9 e le 18. Ciò solleva un’altra questione vertiginosa alla quale il processo non potrà sfuggire: quando comincia la vita, da un punto di vista giuridico?». Il primo processo si chiude in dicembre con una condanna a 7 mesi di prigione con la condizionale e a 60 aliquote giornaliere di 150 franchi: per lesioni colpose per negligenza, ripetute violazioni delle prescrizioni di servizio e tentativo di interruzione di gravidanza. Al processo di appello, tenutosi un anno dopo, l’uditore (accusa) chiede tre anni di prigione, di cui almeno sei mesi da scontare – introducendo tra i capi d’accusa l’omicidio – ma la corte riduce invece la pena iniziale a 150 aliquote giornaliere di 150 franchi. In un articolo di Ariane Gigon per Le Courier (7 novembre 2018) si riprendono alcune considerazioni emerse nel processo: secondo il presidente della corte, quando il sottufficiale ha constatato che la giovane donna non poteva camminare fino al treno, non poteva pensare che il bambino di cui era incinta fosse morto. Tuttavia la guardia di confine avrebbe dovuto assumersi la responsabilità di cui era investito quel giorno e informarsi su quanto stava succedendo. Il giudice ha stimato che la sua passività ha causato un deterioramento dello stato della giovane donna: «a quel momento avrebbe dovuto far intervenire immediatamente un medico» (tra l’altro l’ospedale di Briga è a 300 metri dalla stazione). Nello stesso articolo ci sono poi considerazioni interessanti (e inquietanti) sul contesto in cui è avvenuto il fatto, non ascrivibile a un atteggiamento razzista ma generato piuttosto da «uno spirito di routine», per riprendere le parole del presidente. Secondo il difensore del sergente maggiore, «anche il sistema in vigore ha avuto un ruolo nel dramma: il mio cliente ha spiegato che l’infrastruttura non era adatta e che i collaboratori non erano formati per il lavoro di presa a carico dei profughi. Si sentivano lasciati a se stessi». E una direttiva interna a uso delle guardie di frontiera di Briga, dice la giornalista, invitava nel 2014 a mostrare «tolleranza zero di fronte a malati, donne incinte e famiglie» (indicazione in seguito soppressa). E ancora, spiega un'altra guardia, «prima del dramma del 2014 dovevamo mostrare la più grande riserva in materia di cure mediche. C’era sempre qualcuno, nelle gerarchie, che si chiedeva chi avrebbe pagato la fattura».

Al di là della pena e del contesto – qui considerato come attenuante – anche da un punto di vista militare (ma possiamo noi sapere qual è il punto di vista militare?) si è quindi riconosciuto un grave errore di valutazione, al limite della cecità, in una persona che in quel frangente era investita di una responsabilità e aveva dunque la possibilità di scegliere, di decidere.

Le sentenze del 2021

Più sorprendenti, almeno per me, sono le recenti condanne delle tre guardie che gli erano sottoposte. I dibattimenti hanno avuto luogo tra febbraio e marzo, ma se ne è saputo qualcosa solo il 9 maggio, quando ne ha parlato la «Sonntagszeitung». La notizia è poi stata confermata e ripresa quello stesso giorno da una nota dell’ATS (che si può leggere per esempio qui: https://www.laregione.ch/svizzera/svizzera/1510401/guardie-confine-franchi-domodossola-tre ). Io ho sentito la notizia quel 9 maggio al radiogiornale RSI delle 18.30: notizia di apertura con una corrispondenza e un’intervista a un sindacalista delle guardie di confine. Al di là dell’entità della pena (30 aliquote giornaliere tra i 150 e i 300 franchi) – che non importa più di tanto – la sostanza è questa: secondo la corte, le tre guardie non hanno mostrato coraggio civile e avrebbero dovuto chiamare un’ambulanza anche contro la volontà del loro superiore. Insomma, sono stati condannati per non aver disobbedito. Stiamo parlando di un’organizzazione fortemente gerarchica, fondata sul principio della subordinazione e dell’obbedienza, e quindi la cosa mi sembra rilevante. Eppure, che io sappia, se ne è parlato poco. A parte quel servizio radiofonico (che apriva così: «Quando necessario la giustizia militare si aspetta disobbedienza…» ) solo la nota dell’ATS ripresa qua e là senza sviluppi, senza commenti. A confermare che si tratta di tre sentenze rilevanti, anche la reazione di Roberto Messina, vicepresidente del sindacato del personale delle dogane e del corpo delle guardie di confine (Garanto), secondo il quale «è inammissibile che si possa aprire la breccia» nel funzionamento gerarchico dell’istituzione. Intanto rallegriamoci, in barba al conservatorismo sindacale, di questa breccia aperta, dell’affermazione del primato della coscienza individuale e della morale sul funzionamento routinario di una macchina amministrativa impersonale, e soprattutto della legittimazione della disobbedienza come gesto necessario in certe situazioni. È la giustizia militare che va per una volta contro la logica militare. Le mie sono considerazioni forse ingenue e sarebbe interessante leggere un commento di queste sentenze da parte di chi conosce meglio la giustizia militare e il diritto in generale (anche se purtroppo la documentazione processuale non è accessibile).

Nell’attesa di analisi più autorevoli, chiudo tornando alla citazione iniziale: se anche dalla musica militare dovesse giungerci qualche novità sorprendente, ciò non farà che convalidare – in quanto eccezione che conferma la regola – la massima marxista (tendenza Groucho) ispirata da Clemenceau.

 

(Danilo Baratti, La disobbedienza necessaria: i processi militari per il caso di Briga, «Nonviolenza» n. 43, giugno 2021, pp. 16-17)

Nonviolenza, 2021, giustiziamilitare

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