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Leo Manfrini, Mosè Bertoni, il Paraguay (2016)

Un ricordo del regista scomparso

(Un ricordo del regista scomparso. Leo Manfrini, Mosè Bertoni, il Paraguay, «Il Cantonetto», anno LXIII, n. 1-2, febbraio 2016, pp. 12-19)

 

Un ricordo del regista scomparso

Leo Manfrini, Mosè Bertoni, il Paraguay

La notizia della morte di Leandro Manfrini, di Leo Manfrini, mi spinge a ricordare pubblicamente l’importanza che ha avuto, anche per me, il suo lavoro documentaristico su Mosè Bertoni. Perché lo studio della vita e dell’opera di Mosè Bertoni, che ormai mi occupa[1], a ritmi irregolari, fin dagli anni Ottanta, parte proprio da Manfrini: dalle sue ricerche di storie, di immagini, di materiali, ma anche da lui in carne ed ossa, dai suoi racconti, dalle sue indicazioni, dagli scambi di opinione.

Non ci vedevamo spesso, ma ci siamo frequentati e sentiti, a intervalli, per quasi trent’anni. L’ho visto per l’ultima volta nel 2011, a casa sua, subito dopo il passaggio di una giornalista svizzero-tedesca che voleva informazioni su Mosè Bertoni. Ormai era tardi: come ho capito durante la nostra disordinata conversazione anche gli aneddoti più amati, narrati più e più volte, si erano parzialmente eclissati nei meandri della memoria.

La curiosità per Mosè Bertoni gli nasce nei primissimi anni Settanta, quando con Carlo Pellegrini e Gaetano Maranesi sta girando, nella provincia argentina di Misiones, un bel documentario sui discendenti degli emigranti svizzeri stabilitisi negli anni Trenta in quella zona, per sfuggire alla crisi[2]. Nel documentario stesso compare un rapido riferimento alla vicenda dell’emigrante bleniese, stabilitosi definitivamente sull’altra riva del Paraná, quella paraguaiana. Dopo il primo approdo, clandestino, a Puerto Bertoni, l’attrazione per il tema è fortissima, ma per un giornalista televisivo non è facile entrare e lavorare liberamente nel Paraguay del dittatore Alfredo Stroessner[3].

Nell’ottobre del 1976, dopo un ulteriore sopralluogo, Manfrini presenta un progetto di documentario su Mosè Bertoni da realizzare tra il dicembre di quell’anno e il gennaio successivo[4]. Ma i tempi saranno più lunghi. Un altro viaggio in Paraguay ha luogo nel marzo del 1980, e ad accompagnare Leandro Manfrini e Carlo Pellegrini c’è anche il direttore della biblioteca cantonale Adriano Soldini, che scrive un lungo rapporto una volta tornato in Ticino.

L’interesse specifico della Televisione della Svizzera Italiana nel concepire e attuare il sopralluogo è stato quello di concretare la raccolta di materiale e testimonianze che permettano di produrre un lavoro sulla figura, la vicenda, l’opera dell’emigrante e dello scienziato, indubbiamente eccezionali nella storia ricca di risvolti umani e, diciamo pure, creativi della nostra emigrazione. Ma l’iniziativa televisiva può pure coincidere con un acquisto d’informazione e di stimolo nella ricerca che credo abbia motivato l’invito a me rivolto, e accolto dal Dipartimento della Pubblica Educazione, di aggregarmi alla spedizione, preceduta del resto da un primo contatto, già avvenuto nel luogo dell’attività centrale del Bertoni denominato appunto Puerto Bertoni, dove si era riscontrata ancora la presenza di una biblioteca, di strumenti e di carte (...)[5].

Questa spedizione permette di ampliare la documentazione filmata, di intervistare i figli di Bertoni ancora in vita, di recuperare importanti documenti. E non è l’ultima. Per finire il documentario, in due puntate di quasi un’ora l’una, viene trasmesso dalla TSI nel marzo del 1985[6].

Due mesi prima era stata istituita, su iniziativa del consigliere nazionale Massimo Pini, la Fondazione Mosè Bertoni, orientata a salvaguardare e divulgare in Svizzera e all’estero la figura e l’opera dell’emigrante bleniese. Anche questa iniziativa, che tra alti e bassi ha comunque contribuito a portare Mosè Bertoni all’attenzione pubblica, non sarebbe nata senza i viaggi di Manfrini e senza la sua preoccupazione di salvare il salvabile[7].

Ma qui è il documentario che mi interessa. Una consultazione incrociata delle biografie di Bertoni[8], dei suoi scritti e delle lettere allora conosciute permetteva già di farsi un quadro sufficientemente articolato del personaggio e della sua storia. Ma il film di Manfrini, con tutto quel che gli ruota intorno, costituisce un nuovo punto di partenza per la conoscenza di quella vicenda.

Nella narrazione manfriniana gli elementi cavati dai vari testi biografici preesistenti si fondono con nuove conoscenze tratte dalle lettere ritrovate nel 1980. E poi ci sono le interviste ai figli Werner e Aurora, raccolte poco prima della loro scomparsa (tra l’ultimo sopralluogo e le riprese era purtroppo morto Winkelried), alle quali si aggiungono le voci di altri discendenti, tra cui due nipoti che hanno vissuto una parte della loro vita a Puerto Bertoni[9]. Ma molto parlano le immagini: le magnifiche fotografie scattate a Puerto Bertoni intorno al 1915 – scoperte nel corso della preparazione del documentario e stampate a partire dalle lastre originali – e le immagini girate da Pellegrini, che illustra l’esterno e l’interno di Puerto Bertoni prima delle ricorrenti spoliazioni di oggetti e prima delle trasformazioni che i locali hanno subito nel loro passaggio da luogo fermo nel tempo – i locali superiori erano rimasti come si trovavano alla morte di Mosè Bertoni nel 1929 – a museo prima conservativo e poi didattico.

Nell’insieme – pur con qualche imprecisione, qualche elemento “mitico” non verificato e un’enfasi del testo qua e là eccessiva – il documentario resta ancora oggi un ottimo punto di riferimento per chi vuole entrare nel “mondo” di Mosè Bertoni.

A un certo punto compaiono, nel film, anche le attrezzature tipografiche che Bertoni aveva acquistato per la sua tipografia Ex Sylvis, installata a Puerto Bertoni, nella foresta dell’Alto Paraná. Le usa un maestro, fiero di poter avvicinare così i suoi figli a una professione legata alla lettura e alla cultura. Anche qui, molto probabilmente senza Manfrini e Pellegrini nessuno si sarebbe più preoccupato di questo cimelio vivente, sul quale si è poi innestato il mio lavoro sulla favolosa storia della Ex Sylvis[10].

Insomma, non è solo il documentario in sé a costituire una pietra miliare nella conoscenza e divulgazione della vicenda bertoniana, ma tutto quanto ha messo in movimento prima e dopo: la raccolta di materiali, l’impegno in Svizzera e in Paraguay affinché le istituzioni si prendessero cura di quella memoria[11], lo stimolo a studi successivi. 

Mentre lavora al documentario, Manfrini pensa alla possibilità di raccontare l’epica vicenda bertoniana in altro modo: un film di finzione. Nascono qui i nostri contatti diretti, quando nell’estate del 1984 vengo affiancato, nel ruolo di consulente storico, a lui e allo sceneggiatore Nicola Badalucco. Così mi leggo tutto quanto è disponibile in quel momento – biografie, articoli e lettere, tra cui quelle recuperate nel 1980 – avviandomi alla carriera di bertonologo[12]. Dopo un primo abbozzo[13], prende forma l’idea di una produzione televisiva in quattro puntate, se mi ricordo bene di un’ora e mezza l’una. Un progetto in armonia con la smisuratezza bertoniana, che per poter essere realizzato avrebbe dovuto trovare cofinanziamenti importanti (si pensava, mi pare, alla brasiliana Globo). Ecco la prima scena, che ricorda un po’ l’inizio di Mission di Roland Joffé, uscito in quello stesso anno:

SCENA 1

CASCATE DI IGUAÇÚ – Esterno – Giorno

 

P.P. – Un violento, spumeggiante salto d’acqua. Si allarga il campo visivo fino ad inquadrare in C.L. l’imponente spettacolo delle cascate più grandi del mondo.

 

L’INIZIALE FORTISSIMO SCROSCIARE DELL’ACQUA SI VA SMORZANDO POCO A POCO.

 

La M.d.P. inizia una lenta PAN. Escludendo via via le cascate e cogliendo il paesaggio circostante. C’è una lunga, morbida DISSOLVENZA INCROCIATA.

 

SCENA2

FIUME (PARANÁ) – Esterno – Giorno

 

Lo scorrere tranquillo di un grande fiume costeggiato da foreste tropicali.

La prua di una barca fende il piatto livello dell’acqua.

 

F. C. IL PULSARE DEL MOTORE

 

Una fitta composizione di fiori. È distesa, come una coperta, sopra una bara collocata al centro dello scafo. Accanto alla bara, visibilmente triste, sta accucciato un guaraní di circa trent’anni: un bel viso forte e dolce.

 

La M.d.P. sorvola la barca da prua a poppa, dove sta un timoniere indio, e prosegue in senso contrario alla linea di navigazione. Ecco la lunga scia e, dopo, un corteo di barche cariche di passeggeri.

 

SORGE IN LONTANANZA UN CANTO: È UN CORO SIMILE A UNA NENIA (F.C.)

 

In P.P. le barche del corteo. Isoliamo i volti dei passeggeri (che saranno raggruppati negli scafi per nuclei famigliari).

[...]

 

F.C.: IL CANTO SI FA SEMPRE PIÙ VICINO

 

Come richiamata da questa fonte sonora, la M.d.P. abbandona il corteo di barche e panoramica verso la riva, scoprendo una fitta presenza umana: uomini, donne, bambini. Sono tutti indios: s’inginocchiano al passaggio del funerale intonando quella specie di nenia.

Un lungo indugio su questa inquadratura; poi c’è uno ZOOM veloce, nervoso, quasi volessimo frugare fra le piante della retrostante foresta per individuare qualcosa o qualcuno che ci ha suscitato inquietudine. Ecco, infatti, un volto di bambina: bellissimo, scuro (guaraní, evidentemente). È intravisto come un miraggio, o frutto dell’immaginazione, nel gioco di luci e ombre proposto dagli alberi; ciò che conferisce a questa presenza un senso di mistero.

Siamo nel 1929 e naturalmente nella bara c’è Mosè Bertoni. Poi, con la scena 4, si torna al 1857, a Lottigna, e comincia la vita di Mosè, neonato tra le braccia dei genitori... La piccola guaraní evanescente ricomparirà alla fine della quarta puntata, di fronte a Bertoni moribondo, prima dei titoli di coda.

Ma questo progetto resterà sulla carta[14], e lo stesso destino toccherà alla rielaborazione successiva, con l’intervento di due co-sceneggiatrici, che mantiene la stessa struttura narrativa ma la condensa in un unico lungometraggio[15].

Un nuovo copione del 1989, di Mario Garriba e Leandro Manfrini, porta lo stesso titolo dei precedenti[16] ma presenta una storia completamente diversa. Siamo nell’Argentina del 1950 e un battello, il “Cacique II” risale il Río de la Plata. La seconda scena introduce il protagonista:

Peter Monti (uno svizzero sui 40/50 anni) è seduto verso la prua con la testa dentro il braccio appoggiato sul bordo del battello. Segue annoiato le strisce che il battello disegna sull’acqua.

Le strisce sull’acqua. 

Sul “Cacique II” la gente più strana: peones, qualche indio, militari, bambini nudi, vecchi. Un viaggio dove tutti sono già stanchi, qualcuno dorme sulle amache che funzionano da cuccette. Altri si muovono nel breve spazio fra prua e poppa.

Una signora (Greta, svizzera tedesca, sui 40 anni) cerca di parlare con il capitano superando il rumore dei motori...

È l’inizio di Desencuentros, il lungometraggio presentato da Manfrini del 1992[17]. Un titolo migliore, più accattivante e pertinente, ma la sceneggiatura è quella (anche se nel film il battello si chiama “Tres fronteras”, nome adattissimo alla storia). Questo Peter Monti che risale il Paraná ha ereditato delle terre a Misiones e vorrebbe venderle. Poi gli capita di tutto, tra Argentina, Brasile e Paraguay, nella regione delle tre frontiere.

La produzione ha insistentemente lanciato Desencuentros come un film “su” Mosè Bertoni, ma la figura dello scienziato bleniese, evocata in alcune scene, resta sullo sfondo[18]. Si può invece dire che questa sia la storia di Leo Manfrini, della sua scoperta di Puerto Bertoni, della sua attrazione per il Paraguay. Lo svizzero Peter Monti è il suo alter ego, che si muove vent’anni prima sugli stessi percorsi. A Misiones incontra quegli emigranti di cui Manfrini aveva raccontato la vicenda negli Eredi della crisi. Monti passa dall’Argentina al Paraguay attraversando il Paraná sulla barca a remi di un emigrante svizzero che ha una famiglia di qua e una di là (è il Flükiger che vediamo negli Eredi della crisi). Viene sequestrato da un gruppo armato capeggiato da un losco filonazista interpretato da Teco Celio (è la rielaborazione del sequestro subito da Manfrini e dalla sua squadra in Paraguay da una banda armata capeggiata da un fascista italiano, episodio più volte raccontato agli amici e infine pubblicato in Viaggiatore senza passaporto[19]). Arriva a Puerto Bertoni e trova Werner Stauffacher, figlio di Mosè, sulla veranda della vecchia casa (e così è stato per Manfrini, la prima volta. Werner dice a Monti, aprendogli la porta dello studio, che non ci entra da vent’anni: a Manfrini aveva detto che non ci entrava da quaranta). Lo stupore di Monti che si aggira tra i libri e gli oggetti, in un ambiente rimasto intatto dal 1929, è lo stupore di Manfrini. Anche lui alloggia al Gran Hotel del Paraguay (anche se nel film quell’incantevole dimora coloniale è collocata in Argentina). Avendo perso tutto, finisce a lavorare in una azucarera fuori Asunción, gestita all’epoca delle riprese, se non ricordo male, da parenti dello stesso Manfrini. Un film impregnato di elementi autobiografici, insomma. E, in generale, Peter Monti è preso dalla stessa fascinazione del Paraguay sperimentata da Manfrini.

Questa è l’ultima scena (Peter Monti, dopo una serie di disavventure e desencuentros, sta viaggiando verso la capitale per poi rientrare in Svizzera):

SCENA 139

FERROVIA – TRENO (est. Giorno)

 

Il treno è uscito dai binari.

Tutti scendono.

I vagoni sono finiti nella terra rossa.

Il personale del treno ed i militari rassicurano: non è successo niente, bisogna soltanto aspettare. (...)

Greta si guarda intorno irritata.

(...)

 

GRETA

Ma faccia qualcosa... Si ricordi che è Svizzero!

 

Peter è fermo ai bordi del binario con il suo sacco. Vede tutto, ma resta tranquillo.

Non risponde nemmeno.

Con calma si toglie le scarpe, le lega insieme con i lacci, se le mette sulle spalle e, con le mani in tasca, si allontana lungo uno dei tanti campi che circondano la ferrovia.

Scompare lontano come una delle tante persone che camminano a piedi nel Paraguay e non si riesce a capire dove vanno[20].

Peter decide dunque di rimanere. Qui i destini apparentemente si dividono, ma quella scelta l’ha accarezzata anche Leo Manfrini, che ha mantenuto un fortissimo legame sentimentale con quel caleidoscopico paese, quel “rincón de mundo – aveva sintetizzato Bertoni – que Dios creó y condenó”[21]. Un luogo marginale e dimenticato, in cui si fondono bellezza e abbandono e dove il tempo sembra procedere a rilento: sono aspetti del Paraguay che hanno affascinato, come altri, anche Manfrini. Una delle scene più “paraguaiane”, su cui il regista ha molto indugiato, è quella che chiude la prima parte del documentario del 1985: il vecchio treno sgangherato, con vagoni disuguali e traballanti, si allontana a passo di lumaca verso un vago orizzonte, accompagnato da un lento ritmo di guarania; due bovini, quasi al rallentatore, attraversano, dopo il suo passaggio, i binari e lo schermo. In fondo il finale di Desencuentros non è molto diverso.

Un’ultima tappa cinematografica in Paraguay, ancora con la collaborazione di Carlo Pellegrini, è il documentario Rosaleda - Una storia svizzera, del 1999[22]. Tutt’altra storia, ma con elementi ricorrenti. Ancora una volta si tratta di svizzeri in Paraguay, alla ricerca di una nuova vita. Nel Chaco paraguaiano, non lontano dalle colonie mennonite, negli anni Novanta si sono insediati una settantina di svizzeri provenienti da vari cantoni – gente varia, in parte sbandata, senza prospettive in Svizzera, ma anche qualche persona più lucidamente intenzionata a sottrarsi alla prospettiva di una vita sempre più insignificante sul piano dei valori. Il documentario di Manfrini, da cui traspira una certa empatia nei confronti di queste persone, con le loro scelte disperate o anticonformiste, ha un po’ infastidito la rappresentanza diplomatica svizzera in Paraguay, nella misura in cui il film poteva incitare altri a seguire quella scelta migratoria, con una concentrazione nel Chaco di cittadini svizzeri potenzialmente problematici da gestire[23]. A temperare il potenziale attrattivo è comunque intervenuto, poco prima che uscisse il film, un duplice assassinio che ha sconvolto la comunità di Rosaleda (Manfrini aveva intervistato le vittime, che compaiono in immagine, e su questo ha poi giocato la promozione televisiva del programma).

In questa vicenda il regista ha voluto cogliere soprattutto la ricerca di libertà, la capacità di lanciarsi in un progetto nuovo, l’attrazione per una terra sconfinata e seducente, ma anche difficile, in cui forse è ancora possibile realizzare i propri sogni controcorrente. Come aveva cercato di fare Mosè Bertoni.

Nei molti articoli su Mosè Bertoni e nel documentario, Manfrini ne sottolinea soprattutto la natura sognatrice, la spinta ideale, la tragicità di un destino che fa dell’emigrante-scienziato un “grande perdente” (un destino quasi parallelo a quello del suo paese adottivo). Una lettura accentuatamente romantica, che ricostruisce con partecipazione e ricchezza di dettagli la vicenda esistenziale. Mentre per quanto riguarda la produzione scientifica e l’evoluzione del pensiero di Bertoni, non va oltre i convincimenti e i giudizi, spesso non verificati, espressi dai biografi precedenti. Comprensibilmente, perché quel documentario era un’opera di divulgazione, che voleva innanzitutto raccontare una storia straordinaria e, nel contempo, contribuire alla conservazione della memoria di quell’avventura e di quanto ne rimaneva concretamente. Come abbiamo già avuto occasione di scrivere, “Manfrini è stato il riscopritore, e forse il salvatore, di Puerto Bertoni”[24], ma in fondo è una conclusione riduttiva: per quel che concerne la divulgazione e la conoscenza della vicenda bertoniana è stato molto di più.

Danilo Baratti

(Un ricordo del regista scomparso. Leo Manfrini, Mosè Bertoni, il Paraguay, «Il Cantonetto», anno LXIII, n. 1-2, febbraio 2016, pp. 12-19)

 

[1] Dovrei dire “ci occupa”, visto che si tratta di lavori fatti a quattro mani con Patrizia Candolfi. Ma qui mi esprimo in prima persona perché il rapporto diretto con Manfrini era essenzialmente mio.

[2] Gli eredi della crisi, TSI 1971. Ricordando questo documentario nella sua raccolta di scritti Viaggiatore senza passaporto (Edizioni Giornale del Popolo, Lugano 2003), Manfrini lo posticipa erroneamente di un paio di anni e parla di “svizzero-tedeschi mandati qui a cercar fortuna all’inizio degli anni venti” (p. 20), mentre nel film dice che negli anni Venti erano giunti lì, di loro iniziativa, alcuni emigranti svizzeri poi dedicatisi con successo alla produzione di yerba mate, seguiti negli anni Trenta da chi fuggiva la crisi: un viaggio sovvenzionato con prestiti del governo svizzero, che ha poi lasciato gli emigranti al loro destino, spesso un destino di indigenza.

[3] Proprio qualche sabato fa, prima della sua morte, avevo sentito casualmente – la radio accesa in automobile, Rete 2, “Il granaio della memoria” – una vecchia intervista a Manfrini (sulla sua attività di giornalista, sulla copertura della guerra del Vietnam), in cui diceva di essere da tempo in attesa dell’autorizzazione per lavorare in Paraguay, e che in questa lunga attesa aveva un po’ perso l’interesse per il tema. Sappiamo con quanta intensità l’interesse si sia poi rinvigorito al momento buono.

[4] LM/hh, Mosè Bertoni, dattiloscritto, 1 ottobre 1976, 5 pp.

Un primo passo era già stato compiuto l’anno prima, con la richiesta a Raffaello Ceschi di un “sondaggio preliminare (...) in vista di una ricostruzione televisiva drammatica” della vita di Bertoni (Raffaello Ceschi, Sondaggio su Mosè Bertoni, dattiloscritto, 21 novembre 1975, 7 pp.). Nella prima parte del suo rapporto Ceschi faceva il punto sulla documentazione disponibile, poi puntualmente radunata e consultata da Manfrini (che tra l’altro aveva fatto tradurre in italiano la lunga biografia romanzata di Adolf Saager, Mosè Bertoni: ein tessiner Forscher und Pionier im südamerikanischen Urwald, Basilea 1941).

[5] Adriano Soldini, Appunti di un viaggio e una ricerca sullo scienziato ticinese emigrato in Paraguay, dattiloscritto, maggio 1980, 11 pp. Nella relazione Soldini dà utili informazioni sulla biblioteca di Puerto Bertoni.

[6] La prima parte (Realtà e utopia) è andata in onda il 13 marzo 1985, la seconda (L’Uomo e la scienza) il giorno dopo (in precedenza avevamo collocato i documentari nel 1982, in base a un’informazione imprecisa avuta mentre preparavamo la nostra biografia epistolare di Bertoni: cfr. D. Baratti e P. Candolfi, L’arca di Mosè, Casagrande, Bellinzona 1994, p. 22-23). Lo stesso documentario verrà poi ripreso l’anno dopo, diviso in quattro puntate, da “Telescuola” (17 e 24 ottobre, 7 e 14 novembre 1986). Nel 2013 i due documentari sono stati riproposti nella trasmissione “Superalbum” di RSI la 2. 

[7] La Fondazione Bertoni ha contribuito all’uscita di due pubblicazioni. La prima, molto importante per i ricercatori, è la Biobibliografía  de Moisés Santiago Bertoni, a cura di Lorenzo Ramella e Yení Ramella Miquel, messa in cantiere dal Conservatoire et Jardin botanique de la ville de Genève (Ginevra, 1985). La seconda, di carattere divulgativo, è il libretto per ragazzi di Angelo Casè, Mosè Bertoni (1857-1929). Da Lottigna al Paraguay(Edizioni svizzere per la gioventù, 1986). La Fondazione si è quindi lanciata in un progetto di centro di ricerca scientifica a Puerto Bertoni legato alla Confederazione, poi abbandonato. È infine stata presente, prima di sciogliersi nel 2006, nelle trattative con il governo paraguaiano, arrivate a buon fine nel 1993, per il recupero e la catalogazione dei documenti di Puerto Bertoni e per il restauro della casa.

[8] Si veda la “Rassegna critica delle biografie” in D. Baratti e P. Candolfi, L’arca di Mosè, cit., o la stessa rassegna, aggiornata, in www.mosebertoni.ch (andando a “Vita e opere” e quindi “Approfondimenti”).

[9] Manfrini ha avuto, per primo e per ultimo, la possibilità di intervistare i suoi discendenti diretti, ma l’ha fatto cercando tendenzialmente una conferma dell’immagine di Bertoni che si portava dentro. Del resto gli stessi parenti, con l’eccezione del lucidissimo nipote Sigisfredo, con il quale abbiamo poi avuto occasione di parlare a lungo qualche anno dopo, tendono a trasmettere un’immagine mitizzata e acritica del proprio avo. Ma queste sono osservazioni che faccio col senno di poi, legate anche alle nuove domande che ulteriori ricerche sull’emigrante bleniese hanno fatto sorgere.

[10]  Danilo Baratti, Fare libri nella selva. Mosè Bertoni e la tipografia ex Sylvis (1918-1929), “Quaderni bleniesi”, n. 6, Bellinzona 1999 (con la collaborazione di Fabio Casagrande), 112 pp.

[11] Vedi anche M[ichele] F[errario], La RTSI e la rivalutazione della figura di Mosè Bertoni. A colloquio con Leandro Manfrini, in “Microantenna”, rivista di informazione della RSI, marzo 1987. Manfrini ripercorre l’origine del suo interesse per Bertoni e parla del ruolo avuto dalla TSI anche nella nascita della Fondazione Bertoni. Come capita in altri suoi testi, all’interno di un discorso sostanzialmente solido e seducente, gli sfugge un dato improbabile e non verificato: a proposito dell’interesse etnologico della zona di Puerto Bertoni, afferma che nei dintorni vivono “ben 70 razze diverse”. Nell’area vi sono essenzialmente alcuni nuclei superstiti di Mbyá-guaraní.

[12] Conservo ancora, tra i vari materiali accumulatisi nel tempo, le fotocopie che mi aveva consegnato Manfrini nel 1984, all’inizio del lavoro: le biografie di Saager, Jäggli e Pedrazzini, la voce Paraguay dell’enciclopedia Il Milione (buona), il mémoire di Peter Schrembs sulle idee di Bertoni, il lavoro di Maurizio di Poi per il diploma di bibliotecario (con bibliografia e trascrizione di alcune lettere), gli scritti già ricordati di Ceschi e Soldini, qualche articolo di giornale. 

[13] Nicola Badalucco, Progetto per un film televisivo, settembre-ottobre 1984 (dattiloscritto, 148 pp.).

[14] E precisamente su quattro fascicoli di 108 pagine, uno per puntata, che conservo a casa con qualche annotazione, e che dovrebbero trovarsi pure negli archivi della RSI: Nicola Badalucco, L’uomo del grande fiume. Prima stesura [febbraio 1985], in quattro parti (dattiloscritto).

[15] Nicola Badalucco e Antonella Grassi, con la collaborazione di Gabriella Rosaleva, L’uomo del grande fiume, novembre-dicembre 1986 (dattiloscritto, 157 pp).

La storia del progetto di una fiction su Bertoni, fino a quest’ultima riscrittura, è ripercorsa in “Microantenna”, marzo 1987: Bertoni sullo schermo? Storia di un progetto di lungometraggio (e scopro che viene probabilmente da qui l’antedatazione del documentario al 1982). Dall’articolo risulta che Gabriella Rosaleva si era associata alla revisione della sceneggiatura “in vista di un eventuale incarico di regìa nell’ambito di un’ipotesi di coproduzione internazionale, con particolare riferimento alla RAI”. Si immagina a questo momento un film della lunghezza di due ore, destinato sia al mercato cinematografico sia a quello televisivo. Si considera la possibilità di inserire questa produzione nell’ambito delle celebrazioni de 700 anni della Confederazione, e “l’operazione dovrà essere realizzata nel 1987/88”. Così non sarà.

Stando all’articolo l’idea di un lungometraggio avrebbe preceduto quella del documentario. Siccome i tempi del progetto di fiction si allungavano per ragioni finanziarie, “nel 1982 il direttore Bixio Candolfi stabilì di mettere a frutto le ricerche fatte”, con la realizzazione di un documentario da parte di Manfrini e Pellegrini. Ciò fatto, “Bixio Candolfi riprese quindi l’idea del lungometraggio o TV movie”.

[16] Mario Garriba e Leandro Manfrini, L’uomo del grande fiume (titolo provvisorio), dicembre 1989 (dattiloscritto, 183 pp.). Anche qui c’è un mio foglietto di appunti per Manfrini: “Mi pare che si vogliano ficcare nel film troppe cose, troppi accadimenti (quasi in contrasto col discorso del tempo paraguaiano, che ricompare, qua e là, nel testo). La storia starebbe in piedi anche senza le scene 64, 96 e quella della confessione. Superflua, anche se contiene informazioni su Mosè, mi pare anche la 129-130-131. Mi pare che impoverisca l’immagine quasi mitica di Mosè che aleggia nel testo (e tale può rimanere, visto che è un film non su Mosè, ma su Peter). Anche la 109 (Peter agitatore) è poco convincente”. 

[17] Desencuentros (1992), regia: Leandro Manfrini; sceneggiatura, Mario Garriba e Leandro Manfrini; fotografia: Miguel Rodríguez; montaggio: Pedro del Rey; musiche: Franco Piersanti; interpreti: Jean François Balmer, Cecilia Roth, Manuel Callau, Alexandra Sirling, Teco Celio, Arturo Maly; Produzione: Variofilm Cureglia e SSR-RTSI.

[18] Vedi per esempio il riquadro pubblicitario in “Corriere del Ticino” del 5.5.1993, p. 41: “Imminente a Lugano. Desencuentros. Storia di un viaggio che si perde nel mondo dell’utopia – La vita e l’opera dell’anarchico svizzero Mosè Bertoni – Una figura alla quale ancora oggi gli indiani si riferiscono” (sull’etichetta di “anarchico” andrebbe aperto un lungo discorso, ma non è questa la sede). Ancora in occasione della morte di Manfrini, la RSI ha scritto sul comunicato: “ha realizzato numerosi reportage e documentari tra i quali si possono ricordare Desencuentros, sulla figura del bleniese Mosè Bertoni, vissuto in Paraguay”.

[19] Leandro Manfrini, Viaggiatore senza passaporto, cit., pp. 19-28.

[20] Nel film Peter, scalzo, segue lungamente i binari tra l’erba, allontanandosi verso l’infinito. Ma si perde questa bella immagine delle “tante persone che camminano a piedi nel Paraguay e non si riesce a capire dove vanno”.

[21] Lettera al figlio Winkelried, 17.4.1928. E in un’altra lettera, sempre a Winkelried, aveva scritto: “El Paraguay es un caleidoscopio: ‘lindas imágenes’ que pueden cambiar de golpe al menor choque” (28.8.1927).

L’ intensa relazione di Manfrini con il Paraguay ha avuto anche un risvolto istituzionale, quando gli è stata attribuito il titolo di console onorario.

[22] Rosaleda - Una storia svizzera, di Leandro Manfrini e Carlo Pellegrini, produzione TSI, 1999, 74’.

[23] Lo stesso vale per articoli come quelli apparsi su “Das Magazin” (inserto settimanale del Tages Anzeiger e della Berner Zeitung, n. 20, 17-23 maggio 1997): Der Traum vom Paradies. Schweizer in Paraguay.

[24] D. Baratti e P. Candolfi, L’arca di Mosè, cit., p. 23.

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