
Storia e militanza: trasporti e altro (2015)
– contributo a una pubblicazione per i 50 anni della Fondazione Pellegrini Canevascini –
Danilo Baratti, Storia e militanza (trasporti e altro), in AA.VV., Immagini al plurale. Fotografie storiche della Fondazione Pellegrini Canevascini, Fondazione Pellegrini Canevascini, Bellinzona 2015, pp. 21-24.
Storia e militanza (trasporti e altro)
In virtù della mia “anzianità di servizio” mi si chiede di partecipare a questa serie di interventi. E mi si suggerisce, in virtù di considerazioni meno comprensibili, il tema «storia e militanza».
Cominciamo dal primo dato, quello dell’anzianità. È vero: sono agganciato alla Fondazione da un trentennio, da quando ancora il nome di Guglielmo Canevascini non si era affiancato ai quelli di Piero e Marco Pellegrini. E lo sono, agganciato, in una posizione da sempre un po’ anomala, oltre che figlia del caso. Come ricercatore, e uso questa parola altisonante tanto per farmi capire, non mi sono molto occupato di storia del movimento operaio. Alla metà degli anni Ottanta, quando la mia strada si è incrociata con quella della Fondazione, mi ero appena dedicato allo zelo di certi vescovi post-tridentini, a processioni controriformistiche alquanto scomposte, a riti popolari contro la grandine. E sul piano politico, per quanto appartenga indubbiamente al filone della sinistra, non mi sono mai identificato in quella componente socialista (PST-PSA-PSS) che a quell’epoca caratterizzava nettamente il retroterra politico della Fondazione. Doppia anomalia.
Il fatto è che Elio Canevascini aveva consegnato alla Fondazione la parte di archivio del padre Guglielmo in suo possesso, e, conoscendomi, aveva proposto che fossi io, allora parzialmente disoccupato, a riordinare quelle carte (ora oggetto di un riordino definitivo dopo l’acquisizione di altro materiale). È cominciata così.
L’anno dopo ho collaborato con Pasquale Genasci, Gabriele Rossi e Renato Simoni alla pubblicazione dell’Autobiografiadi Guglielmo Canevascini (FPC 1986) e, soprattutto con Renato, all’allestimento della mostra «Padreterno i l’ha ciamàa. 1886-1996: Guglielmo Canevascini nel centenario della nascita»: era nato ufficialmente il Gruppo di lavoro della Fondazione Pellegrini-Canevascini, che continua a esistere e al cui nucleo originario si sono aggiunte man mano altre figure.
Poi per tanti anni il mio contributo è stato per lo più legato a trasporti e traslochi. Nella mia R4, e poi nel più capiente vano della Renault Express, una sorta di mezzo camioncino, viaggiavano ogni tanto scatole di pubblicazioni appena uscite dalla tipografia Aurora, vecchie annate rilegate di Libera stampa, fasci di mappette, faldoni o scatole d’archivio, borse di carta colme di raccoglitori, rotoli di manifesti, bandiere. Viaggi da non so dove al deposito di Barbengo, o da Canobbio a Bellinzona, o da Bellinzona a Giubiasco, o da Barbengo a Davesco. A volte casi d’emergenza, per infiltrazioni d’acqua o cose simili. Che possa entrare qui il tema «storia e militanza»? Per quel portare scatoloni su e giù in favore della conservazione della memoria operaia? Questa attività concreta e irregolare (Gabriele Rossi ne ha fatti infinitamente di più, di questi trasferimenti di materiale cartaceo) è l’immagine più viva a cui collego la mia «militanza» nella FPC. Non essendomi più occupato della catalogazione di archivi e, per molti anni, di qualsiasi attività di ricerca su temi legati al movimento operaio o sindacale, questi traslochi di materiale sono gli unici momenti in cui mi sentivo di qualche utilità al Gruppo di lavoro (mentre continuavano a uscire libri della Fondazione grazie a chi si occupava davvero di quei temi; e anche la sistemazione degli archivi, soprattutto grazie a Gabriele, procedeva senza sosta e senza nessun contributo da parte mia che non fosse un episodico trasporto).
In un paio di occasioni, conscio della mia relativa inutilità, ho tentato di dare le dimissioni, senza successo. Poi sono stato addirittura cooptato, non mi ricordo quando, nel Consiglio direttivo. Sapranno forse gli altri cosa li ha spinti a tenermi tra i piedi, trasporti a parte.
Solo una decina di anni fa mi sono trovato in condizione di dare un contributo non muscolare a un progetto della Fondazione: per il libro collettivo La befana rossa. Memoria, sociabilità e tempo libero nel movimento operaio ticinese, mi sono occupato di tre temi, partendo nei tre casi dalla mia memoria per sviluppare poi un certo discorso (un po’ come sto facendo qui: su argomenti di cui non mi occupo “professionalmente” con una certa intensità, riesco a parlare più facilmente se trovo un aggancio diretto con la mia esperienza personale). E, in tempi recentissimi, ho curato con molto piacere le Memorie di un valdese di Guido Rivoir (2012), di cui avevo anni prima caldeggiato la pubblicazione (una delle uniche riunioni in cui credo di aver dato un utile contributo all’attività della Fondazione), inizialmente affidata a un “esterno”. Per quanto mi sia più volte riproposto di metter mano alla sistemazione di alcuni archivi minori già prima del pensionamento, finora il mio apporto in quel campo è stato praticamente nullo (ad eccezione, ovviamente, dei soliti trasporti).
Bene. Se ho fatto questa lunga introduzione centrata sulla mia marginalità nel lavoro compiuto in questi trent’anni, è per poter esporre tranquillamente, senza il rischio che vi si intraveda una forma di autocelebrazione, quanto dirò ora. Da testimone diretto, non da protagonista. Perché ora sì parlo di «storia e militanza», di coloro che hanno reso possibile questa sorta di miracolo che è stato il percorso della Fondazione: nel recupero degli archivi, nella pubblicazione della “collana rossa” e degli altri libri, nella realizzazione di giornate di studio. Nessuna associazione ha prodotto così tanto lavoro volontario nell’ambito del recupero di fondi archivistici e di promozione della ricerca storica locale.
Nel periodo che va dagli anni Ottanta fin dentro ai primi anni del nuovo millennio, la figura centrale di questa attività è senza dubbio Gabriele Rossi, formalmente segretario ma molto di più: anima e cuore, indefesso radunatore e sistematore di archivi, promotore di attività multiple, ostinato fustigatore dell’inerzia sindacale (in primo luogo per quel che riguarda l’attenzione ai temi sollevati dalla Fondazione, ma si potrebbe estendere il discorso anche al resto). Quanti giorni, quanti mesi all’anno dedicati alla cura dei materiali del movimento operaio e al loro studio? Nessuno lo sa, ma ognuno si spaventerebbe, sapendolo (e consideriamo che accanto a questo ha continuato a svolgere con passione il suo lavoro di insegnante). E le consulenze a ricercatori o a studenti universitari impegnati in una tesi, l’attento accompagnamento di chi era stato assunto con un programma occupazionale per sistemare un fondo, gli incessanti trasporti, di cui ho già detto. Non so come abbia fatto. E come faccia. Eppure ha famiglia, dorme, mangia, passeggia il cane (e che cane!). Va detto che ha potuto contare su due solidi compagni: alla gestione dei conti e delle pubblicazioni, e non solo a questo, pensava Pasquale Genasci e il presidente Renato Simoni contribuiva, con la sua competente assennatezza, a far andare avanti il tutto nel migliore dei modi. Grande reclutatore, Renato: si deve a lui se Nelly Valsangiacomo (l’attuale presidente) e Francesca Mariani (l’attuale segretaria) si sono dedicate a questo ambito di studi, partendo da materiali conservati nei nostri archivi, e poi hanno raggiunto la Fondazione.
Negli ultimi anni gli impegni della FPC si sono ampliati (una pletora di archivi da sistemare, nuovi problemi: le foto, i materiali audiovisivi...) ma si è anche molto allargato il gruppo di lavoro, molto dinamico, le cui riunioni, anche per le amenità che si intercalano ai temi all’ordine del giorno, tendono ad allungarsi a dismisura. Tra i nuovi protagonisti cito almeno Marco Marcacci, che ormai ci accompagna attivamente da qualche anno. Anche le risorse sono aumentate (ma non abbastanza: abbiamo appena deciso di intaccare il capitale), e si riesce a pagare una archivista al 20 per cento, ad attribuire qualche mandato, a dare qualche indennità poco più che simbolica a Gabriele, che continua a sovrintendere il lavoro archivistico. Ma le condizioni di fondo restano quelle di un impegno gratuito, generato da una visione militante del lavoro storico. Non solo per conservare la testimonianza di esperienze passate che, bene o male, sentiamo come nostre, ma per intervenire, con la consapevolezza di quel passato, nel presente. Lo spiegano bene Gabriele Rossi e Pasquale Genasci in Altre culture (FPC 2011), ragionando sull’attività della Fondazione in occasione dello sciopero delle Officine di Bellinzona: «All’improvviso la realtà ha imposto con forza di confrontarsi con il passato e la storia ha offerto l’occasione di prender coscienza di quanto si vale e di rendersi consapevoli che la lotta del momento si inserisce in un percorso oramai secolare. Ci siamo allora resi conto che per essere pronti quando serve, il lavoro deve essere svolto con costanza, per la maggior parte senza echi o riflessi pubblici, per poterlo poi sfruttare, in ogni istante, rapidamente. D’altro canto abbiamo verificato come sia essenziale trovare le vie per essere più vicini e presenti, per contrastare con maggiore efficacia quell’informazione considerata, come abbiamo visto, “neutrale” che gioisce se la borsa sale pur sapendo che ciò succede soltanto grazie a migliaia di licenziamenti».
Queste pagine accompagnano una scelta di fotografie dei nostri fondi archivistici. Se dovessimo aggiungere un’immagine che condensi l’impegno del gruppo di lavoro, vorrei che fosse una foto scattata verso le nove di mattina di una domenica autunnale davanti al capannone di Barbengo (dove un paio di locali fungevano da deposito della Fondazione). I convenuti sono appena scesi dalle loro auto o dal camioncino e si stanno salutando. Si deve capire che sono infreddoliti, magari un po’ preoccupati (perché non si è ancora capito se qualcuno ha la chiave), ma contenti di ritrovarsi lì a quell’ora per quel trasporto.
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