Skip to main content

Pacifismo a due velocità? O semplicemente impotente? (1999)

Riflessione  in due parti sul movimento pacifista della Svizzera italiana di fronte ai conflitti in atto

Deluso dalla rapida trasformazione del Comitato ticinese contro le guerre in un gruppo virtuale, avevo cominciato a scrivere qualche osservazione in merito. Mi sembrava doveroso, visto il lungo silenzio di quel Comitato che proprio su queste pagine aveva affermato di voler continuare il suo lavoro di sensibilizzazione. Poi ho letto l'articolo pubblicato qui sotto e, dopo un inevitabile travaso di bile, ho ricominciato da capo. Ecco qua.

I. Lezioni sataniche

Dopo qualche scontata considerazione iniziale, l'articolo sceglie un bersaglio tra i meno originali: i pacifisti. A giudicare dall'esemplare commistione di luoghi comuni e tirate moraleggianti potrebbe averlo scritto, da cima a fondo, Luciana Caglio. Ma anche un commentatore di qualche giornale destrorso, dall'italico Il Giornale al nostranissimo Il Paese. O ancora Giancarlo Dillena o Moreno Bernasconi. E invece no: è l'editoriale del numero 47 del Diavolo! Se penso a quanto andava scrivendo in piena guerra del Kossovo, direi che è opera di Sergio Savoia. Il popolare rinnovatore aveva ripetutamente battuto il suo chiodo fisso mesi fa, per esempio scrivendo «Io non firmerò appelli alla pace basati sull'equazione USA = Serbia. Spero anzi che la NATO abbia il coraggio e il buon senso di andare fino in fondo» (il neretto è del gioviale intrattenitore).

(riproduzione dell'articolo)

Dopo la tronfia sparata riprodotta qui sopra (savoiarda o diabolica, poco importa), la voglia originaria di riflettere sulle difficoltà di una politica non violenta lascia il posto a quella di controbattere punto per punto il trito predicozzo. Cerco di non lasciarmi trascinare più di tanto in questo esercizio, limitandomi a quattro o cinque osservazioni.

1. L'uso della categoria «pacifista» è superficiale e fuorviante quanto quella di «guerrafondaio». Ancor più lo è il concetto di «pacifismo occidentale». Al di là del comune entusiasmo per «il coraggio e il buon senso» della NATO, non credo che si possano riunire sotto una stessa etichetta Sergio Savoia e Javier Solana. Una parte di quelli che l'editorialista del Diavolo chiama «pacifisti occidentali», preferirebbero definirsi «fautori di una soluzione non violenta dei conflitti». Non è solo una questione di termini: qui dentro c'è la distanza che separa i buoni sentimenti e la scelta politica.

2. Mentre i cosiddetti «pacifisti» hanno superato da tempo, mi pare, la sindrome della guerra fredda, l'editorialista del Diavolo la porta ancora saldamente dentro di sé. L'idea che si è contro una guerra perché è fatta dagli americani (che sono cattivi) mentre una guerra fatta da Eltsin (cioè dai russi) si può tollerare, può albergare solo nella sua testa.

3. Subdolamente l'articolo - e questo è il passo peggiore, dove mi pare di cogliere anche una buona dose di malafede - risponde già all'obiezione principale: che quella del Kossovo era una guerra «nostra», che ci chiamava in causa direttamente. Cazzo! E non è forse vero? È così assurdo che le socialdemocrazie europee siano dilaniate da una guerra che le proprie dirigenze pianificano e promuovono? Dovrebbe spaccarsi il PS svizzero, per esempio, sul conflitto indo-pachistano? O sulla questione di Creta? Che tutte le guerre siano orribili e drammatiche non significa che in tutte ci si senta ugualmente coinvolti. È uguale una guerra combattuta dai «propri» Stati, dai «propri» soldati, a una guerra combattuta tra due nazioni africane? Viste dalla luna, o con l'occhio dell'antropologo, può darsi. Viste dall'Europa, non credo (benché le armi usate in Africa siano mandate dall'Occidente, e quegli stessi pirla di «pacifisti occidentali» si battano da anni contro il commercio delle armi). Dire che il «pacifismo occidentale è parziale come qualsiasi altra manifestazione della nostra società» è vero e stupido nello stesso tempo. Vero perché la politica non è la meccanica newtoniana, e in certe questioni si è direttamente coinvolti e chiamati in causa (i governi che muovono guerra sono i «nostri»: non è forse doveroso esprimersi pubblicamente in merito? prendere partito? essere parziali?). Stupido perché l'espressione «parziale» qui si trasforma in condanna morale.

4. Non mi pare necessario rispiegare qui che la Guerra del Golfo e quella del Kossovo siano state di una natura tutta particolare e abbiano posto problemi e richiesto giudizi assolutamente nuovi. La schifosissima guerra russo-cecena o gli intollerabili massacri di Timor-Est sono un'altra cosa. Questo non significa, come vuol far pensare l'editorialista del Diavolo , che le due recenti Guerre dell'Occidente siano condannate e le altre tacitamente approvate dal «pacifismo occidentale». Lo sa benissimo, ed è vergognoso che lo scriva. Semmai è in altri ambienti che si discetta di guerre giuste e sbagliate. Di uso legittimo e produttivo della violenza.

5. Pretendere che un fautore della soluzione non violenta dei conflitti debba combattere con lo stesso impegno contro tutte le guerre di questo mondo è come dire che una persona contraria alle discriminazioni dovrebbe battersi in ugual modo contro tutte le ingiustizie di questo mondo. Mi ricordo che anni fa il probabile estensore dell'editoriale era attivo nel movimento contro l'Apartheid in Sudafrica. E perché non lottava con altrettanta lena contro l'oppressione del Tibet, o a favore delle minoranze islamiche dell'Unione sovietica? E cosa ha fatto per i dissidenti cubani? Perché questa solidarietà a doppia velocità? Non mi sembrano domande molto intelligenti. Già allora. Eppure c'è chi ne pone di simili, oggi che il mondo bipolare non c'è nemmeno più.

6. Il finalino sulla tredicesima meriterebbe altro genere di replica. Per esempio un bel pugno sul grugno (pure i «pacifisti» hanno i loro sani cedimenti). Anche il diabolico predicatore spenderà la sua, di tredicesima, e probabilmente gozzoviglierà biecamente festeggiando la (falsa) fine di questo secolo di merda e sangue, e l'inizio di un milennio magari anche peggiore. Avrà forse cominciato qualche giorno prima, alla festa prenatalizia del suo giornale, tra le birre e il cabaret scatologico di Pucci. Buon pro gli faccia. Nessuno gliene farà una colpa personale, anche se nel frattempo qualcuno starà morendo sotto le bombe o nelle gelide strade del Kossovo liberato.

II. «Pacifisti» allo sbando

Detto questo, bisogna riconoscere che i «pacifisti» ticinesi non hanno saputo reagire tempestivamente nel caso di due gravi crisi come quella di Timor Est e della Cecenia. Anche lì c'era e c'è molto da dire sull'uso della violenza, sui diritti umani, sull'atteggiamento della comunità internazionale. La mancata reazione non è dovuta, come insinua scioccamente il solito articolo, alla dipendenza del «pacifismo occidentale» dalla CNN e dalle televisioni in genere. Purtroppo i «pacifisti» spesso si accorgono prima degli altri di quel che sta esplodendo. Basta leggere la rivista Guerre & Pace, o Le monde diplomatique, o il manifesto. Il fatto è un altro: in Ticino il «movimento pacifista» è debolissimo e sfilacciato, ed è uscito malconcio dalla guerra del Kossovo. A differenza dell'editorialista del Diavolo, in occasione della guerra della NATO io non ho visto né «show di indignazione» né «mobilitazione importante e per certi versi isterica di di fasce molto larghe della sinistra e dei movimenti pacifisti» (almeno non qui; ma il moralista del foglio satirico parla proprio «dei nostri pacifisti, dei nostri politici»). In quei giorni mi sono invece sentito, con qualche altro, in una situazione di tremendo isolamento e di totale impotenza. Un isolamento che non ho mai provato prima (e sì che mi porto dietro trent'anni di posizioni minoritarie e di manifestazioni in compagnia di sparuti gruppetti). A tener banco era chi si identificava nella missione «umanitaria» dell'Occidente e giustificava la guerra come il minore dei mali, se non addirittura come la cosa buona e giusta. Nei mesi dei bombardamenti sulla Serbia qui non si è affatto sentita una forte opposizione alla guerra come strumento di pacificazione (?). In Europa la protesta è stata, come ha scritto Pietro Ingrao «gracile e dispersa» (vedi il suo articolo nelle prossime pagine). Qui è stata ancora più flebile. Dopo una fiaccolata abbastanza frequentata (Lugano, 13 aprile) non c'è stata opposizione attiva. Certo, qualche articolo di giornale, pro e contro, qualche lettera. Una serata tanto affollata quanto deludente con l'approssimativo Valentino Parlato. Lì c'era parecchia gente, ma molto meno ai sit-in settimanali in Piazza Dante, che alla fine si sono risolti in patetici incontri di una decina di persone (quando andava bene): una testimonianza quasi clandestina. Erano questi, eravamo questi, gli isterici? gli showmen dell'indignazione?

L'esperienza del Comitato contro le guerre, mai dichiarato morto ma congelato da mesi, è stata poco esaltante. I motivi sono parecchi e non è facile individuarli con chiarezza. Tra questi le contrapposizioni legate a una visione limitata del problema (chi voleva che non si nominasse neppure Milosevic nei volantini, chi voleva che si parlasse solo di pulizia etnica senza criticare la NATO), l'assenza di una precedente riflessione comune, l'insufficienza dell'informazione (persone dichiaratamente interessate non hanno più ricevuto uno straccio di comunicazione), l'indisponibilità personale (quando c'è da perdere un'ora in piazza a fare umile testimonianza di dissenso si ha sempre qualcosa di più urgente da fare, e lo stesso quando ci sono le riunioni). A fine giugno un paio di persone si erano impegnate a riconvocare il gruppo in agosto, per elaborare uno statuto e rilanciare il comitato. Sono passati più di quattro mesi. Era nell'aria l'idea che si dovesse creare un comitato più strutturato, che fosse espressione e rappresentazione di partiti, associazioni, gruppi. Non so se si muoverà ancora qualcosa, ma penso che questa sia la via meno interessante. Questo tipo di associazioni mantello, di supergruppi, si regge sul principio della delega e non stimola l'impegno diretto (ne va uno per gruppo, la rappresentanza è salva, tutto è a posto). Bisognerebbe invece vedere se è possibile mettere in piedi un gruppo di persone intreressate a promuovere direttamente e attivamente una riflessione e una informazione continue sulla risoluzione non violenta dei conflitti. Forse l'iniziativa dovrebbe partire dal Gruppo ticinese per il servizio civile e dal GSse, che già fanno di questo tema il cuore della loro attività. Vedremo se sarà possibile.

Danilo Baratti

(I. Lezioni sataniche – II. «Pacifisti» allo sbando, in «Una svizzera senza esercito», n. 32, dicembre 1999, pp. 2-4)

 

 

IlDiavolo, 1999, GSse, pacifismo, guerre

  • Creato il .
  • Visite: 626