Perplessità fondate (2013)
Riflessioni alla vigilia del voto sull'abrogazione dell'obbligo di servire
Perplessità fondate
Nel 2010 avevo giudicato poco opportuna questa iniziativa (che non ho firmato). Visto com’è andata, potrei semplicemente dire di aver avuto ragione, e comunque mi dispiace per chi si è impegnato moltissimo in questa impresa infelice. Mi verrebbe da ripetere quanto avevo già scritto, ma qui mi limito a poche indicazioni. Dicevo che non spettava al GSse aprire un dibattito che spostava il discorso dal senso dell’esercito alla sua forma di reclutamento, che ci si sarebbe invischiati in un dibattito sul numero di uomini necessari all’esercito, sulla sua organizzazione più efficiente, sulla sua capacità di assolvere i suoi compiti. In parte è andata davvero così: si è sentito teorizzare dai sostenitori dell’iniziativa, per esempio, che un esercito di ventimila uomini, considerato il rapporto abitanti/soldati che caratterizza le nazioni vicine, può bastare, o che una pletora di obbligati al servizio non è necessariamente più efficace di un numero ridotto di volontari. Un discorso che non farebbe una grinza, se proposto da chi vuole razionalizzare l’apparato militare e renderlo più efficiente, elastico e leggero (per combattere guerre immaginarie). Non mi sarei sorpreso se una simile proposta fosse venuta, per esempio, dai giovani liberali, o da chiunque volesse modernizzare e “normalizzare” l’organizzazione militare svizzera sull’onda di una tendenza che ha visto molti stati rinunciare al principio della leva di massa.
Buona parte del dibattito è però andato sul tema di fondo dell’esercito: come sempre capita con le iniziative del GSse, anche questa è stata letta come tappa di un progetto di smantellamento progressivo dell’esercito svizzero. La maggior parte degli interventi contrari all’iniziativa portavano sulla difesa dell’esercito in sé, più che sui pro e i contro della leva obbligatoria. Su questo terreno, di per sé legittimo, il dibattito ho toccato anche punte di vero delirio, con l’intervento dello psichiatra Alberto Foglia, pubblicato con titoli diversi sui tre quotidiani ticinesi tra fine agosto e inizio settembre: lo scopo reale degli iniziativisti sarebbe stato non solo «l’eliminazione dell’esercito» ma anche «della Svizzera come entità sociale e politica per essere sostituita da un ordine socialista-comunista (…). Il motivo della loro incrollabile fede, alla quale si aggrappano con tutte le loro forze, è l’odio inconscio, distruttivo». Loro, quelli mossi dall’odio distruttivo, sono ovviamente gli estremisti del GSse. Scomodando il povero Gramsci, questo psichiatra afferma che gli estremisti di sinistra ormai «si sono accasati in tutti i partiti, soprattutto quelli storici» e hanno ottenuto una temibile «egemonia culturale» (e vien da chiedersi, di passata, come una persona abitata da tali fantasmi possa aiutare altri esseri umani a vivere meglio).
Ma torniano alle cose serie: se è il tema dell’esercito in sé ad aver dominato la discussione, e questo va bene, il modo in cui ciò è avvenuto è stato il meno produttivo possibile per una presa di coscienza della bontà di un processo di de-militarizzazione. Da una parte una massa vociante e isterica di difensori dell’esercito, dall’altra persone che, imprigionate in una tela di ragno che essi stessi avevano costruito con un’iniziativa ambigua, non potevano portare i loro argomenti in favore di un orientamento radicalmente diverso, ma si limitavano a evidenziare l’obsolescenza dell’obbligo di servire, la sua antidemocraticità, perfino il dimorfismo sessuale che lo caratterizza. I fautori di una Svizzera senza esercito (e di un mondo senza eserciti) si sono quindi privati della possibilità di portare avanti il proprio discorso, spingendo però la controparte a toccare quel terreno su cui loro non si volevano addentrare. Credo dunque di poter affermare che le mie perplessità iniziali fossero ben fondate.
Cosa concludere, dopo questa votazione? Perlomeno due cose:
– qualsiasi proposta che tocchi l’esercito è destinata a scontrarsi con una maggioranza saldamente ancorata all’immagine (sempre più mitica e lontana dalla realtà) dell’esercito svizzero come istituzione necessaria, vicina alla popolazione e garante della sicurezza. Nel 1989, all’epoca della prima iniziativa abolizionista, l’esercito era una vacca sacra. Benché ridotta a pelle e ossa, rispetto all’antica pinguedine, dalle successive riforme (fino a ridursi a centomila uomini), resta pur sempre una vacca sacra: proprio come quelle scheletriche vacche indiane che vagano nutrendosi di rifiuti ai margini delle città. (Questa constatazione dovrebbe spingerci a continuare, non a desistere, anche perché la nostra vacca non consuma scorie, ma miliardi di franchi).
– è meglio perdere una votazione con un discorso chiaro e inequivocabile, piuttosto che perderla, magari con le stesse percentuali, con proposte ambigue come questa, che finiscono per soffocare o confondere l’appello (sia pur vano) a una scelta antimilitarista.
(Perplessità fondate, «Nonviolenza» n. 12, settembre 2013, p. 16)
votazioni, GSse, esercito, Nonviolenza, 2013
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