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Folle corsa agli armamenti (2022)

La guerra in Ucraina accelera una tendenza già in atto

 

NOTA: questo articolo – uscito sul n. 47 di «Nonviolenza», giugno 2022 – è un aggiornamento, con i nuovi dati SIPRI, di quello uscito sul quaderno n. 37 del Forum alternativo (aprile 2022) con il titolo Riarmo generale: l’insostenibilità al massimo grado. Una versione di questo aggiornamento è uscita anche su https://naufraghi.ch/la-disastrosa-corsa-agli-armamenti/ (con una frase sbagliata per una svista mia)

 

 Folle corsa agli armamenti

«Mi sono vergognato quando ho letto che un gruppo di Stati si sono impegnati a spendere il due per cento, credo, o il due per mille del PIL nell’acquisto di armi, come risposta a quel che sta succedendo adesso. Una pazzia!» (Papa Francesco, 24 marzo). Evidentemente Jorge Bergoglio non è a suo agio nell’analisi dei budget statali in fatto di spese militari, se ha dubbi su percento o permille. Ma ha bene in chiaro l’elemento fondamentale: l’assurdità della corsa agli armamenti che si sta scatenando. È una delle conseguenze della guerra insensata, insopportabile e nefasta decisa da Putin che ci porteremo dietro a lungo, indipendentemente dalla durata della fase guerreggiata che al momento in cui scrivo non accenna a chiudersi. Insensata, insopportabile e nefasta è, a dire il vero, ogni guerra: e però questa lo è particolarmente, per la dimensione incommensurabile dei disastri che sta generando. Per quanto riguarda gli effetti tremendi sulle vite individuali – persone ammazzate, annichilite o in fuga – possiamo anche mettere sullo stesso piano Siria, Yemen e Ucraina, tanto per restare ai conflitti più recenti. Ma qui siamo di fronte a molte ricadute pesanti di portata planetaria. Una di queste è appunto l’accelerazione della corsa agli armamenti.

Tra i primi a muoversi la Germania a guida rosso-verde, che porterà le spese militari dall’1,3 al 2% del PIL (i verdi tedeschi avevano già mostrato la loro anomalia in questo ambito ai tempi di Joshka Fischer). In Italia la Camera ha pure deciso a grande maggioranza di passare al 2%, quindi da 25 a 38 miliardi di euro (104 milioni al giorno). E via di seguito, un po’ in tutta Europa. Così quel 2% su cui insistevano Trump e la Nato si materializza grazie a Putin. Non si respira un’aria diversa in Svizzera, dove il Consiglio nazionale ha appena votato (9 maggio) una mozione che chiede di portare gradualmente le spese militari da 5 a 7 miliardi entro il 2030, e lo stesso farà presumibilmente il Consiglio degli Stati (ma perlomeno da noi a spingere sono i cosiddetti partiti “borghesi”).

La guerra di Putin ha ora un ruolo fatale di acceleratore, ma va detto che si assisteva già da anni a una crescita. I dati del Sipri (Stockholm international peace research institute) per il 2021, comunicati lo scorso 25 aprile, evidenziano il raggiungimento di cifre mai viste, con 2.1 trilioni di dollari spesi in armamenti. I cinque paesi che guidano la classifica sono USA, Cina, India, Regno Unito e Russia, che insieme totalizzano il 62% delle spese militari mondiali. Le spese globali sono in crescita dal 2017 e i due anni pandemici non hanno invertito la tendenza, che ora prenderà nuovo slancio. In Russia c’era stato un calo tra il 2016 e il 2019, ma poi la crescita è stata forte. In vista della guerra ha raggiunto i 48 miliardi di dollari nel 2021 (il 14% in più di quanto preventivato a fine 2020).

Il fenomeno è molto vistoso sullo scenario Asia-Pacifico: «Tutta l’Asia corre a comprare armi», aveva scritto Lorenzo Lamperti sul «manifesto» del 9 marzo 2022, da cui traggo alcuni dei dati che seguono (altri sono dell’ultimo rapporto Sipri). Nel sud-est asiatico tra il 2009 e il 2018 si è registrato un aumento del 33% (700% in Vietnam), in Giappone c’è stata una crescita negli ultimi anni fino ad arrivare al record storico di 47.2 miliardi di dollari. Pure le Filippine toccano un record storico nel 2022 (+ 7,87%). l’India occupa la terza posizione al mondo e nel 2021 ha speso 76,6 miliardi di dollari in armi (per il 64% di produzione nazionale), con un aumento del 33% negli ultimi nove anni. In Cina la spesa militare è in crescita senza pausa da 27 anni e nel 2021 è aumentata del 4,7% toccando i 293 miliardi. Taiwan ha deciso un bilancio extra per la difesa di 8,55 miliardi (soprattutto per navi e missili). E l’Australia, le cui spese militari sono aumentate del 4% nel 2021, arriverà al 2,5% del PIL. Non è il caso di affastellare altre cifre, se non quella astronomica proposta il 28 marzo da Biden per gli Stati Uniti: 813 miliardi, con un aumento pure del 4%. La dinamica è quindi palese e generale.

Riarmo sfrenato significa anche, inevitabilmente, deterioramento ambientale. Per l’estrazione delle materie prime necessarie a questa industria mortifera, per l’energia sprecata nella produzione e nel trasporto, per gli effetti dannosi delle esercitazioni che andranno moltiplicandosi (anche solo per mostrare i denti e i muscoli) disseminando sul terreno sostanze nocive. Per concludere il ciclo virtuoso aggiungiamoci l’eliminazione (come? dove?) delle armi obsolete. E l’impressionante quota di emissioni di CO2 generata da tutto ciò. Da questo punto di vista la filiera della guerra è una delle più deleterie anche in caso di mancata applicazione finale. L’insostenibilità allo stato puro.

Quanto all’applicazione finale, l’abbiamo tutti i giorni sotto gli occhi: le distruzioni spaventose di Mariupol e di altre città, le vie di comunicazione sconvolte, le centinaia di carri armati russi danneggiati, che punteggeranno il paesaggio lugubre e rugginoso del dopoguerra insieme agli scheletri delle case sventrate. Di altri effetti non abbiamo un’immagine visiva quotidiana, ma li sappiamo: le bombe a grappolo sparse tra i campi, la polvere radioattiva sollevata a Chernobyl, i liquami chimici fuoriusciti dalle industrie bombardate…

I massicci investimenti bellici dei prossimi anni andranno a sottrarre risorse ad altri ambiti dell’intervento statale, e penso soprattutto alla questione climatica e agli aiuti sociali. La svolta energetica? I problemi di approvvigionamento energetico portati da questa guerra in teoria spingerebbero verso una rapida uscita dalle energie fossili. Ma gli Stati non potranno investire efficacemente in quella direzione se le loro risorse sono prosciugate da sterili spese militari: sterili per il nostro futuro, non certo per il gongolante apparato militare-industriale. (Intanto l’Europa punta anche sul gas liquefatto americano, idrocarburo “non convenzionale” prodotto – quasi nessuno lo ricorda – con il controverso metodo del fracking, assai problematico sul piano ambientale).

Tornando alla Svizzera, una delle prime manifestazioni di questo clima greve e pernicioso, accanto alla richiesta di un generale aumento delle spese militari, è stato lo sconcertante invito a sospendere la raccolta delle firme per l’iniziativa popolare che intende impedire l’acquisto degli F-35. Al di là del carattere un po’ ambiguo di quell’iniziativa (ne ho parlato su «Nonviolenza» n. 44, settembre 2021), la sfacciata pressione sull’esercizio dei diritti popolari, per quanto poi di fatto rientrata, è allarmante. E intanto si vuole firmare il contratto prima della votazione. Più in generale chi si batte per una contrazione delle spese militari e per un’altra idea di sicurezza avrà in futuro vita dura, anche se, e cito ancora una volta il Papa nel suo discorso a braccio al Centro italiano femminile, la vera risposta «non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari, ma un’altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo, non facendo vedere i denti, come adesso, no?» (è semplice buon senso, ma lo riprendo proprio perché pare oggi del tutto assente in chi ci governa). Poi, a dire il vero, il discorso di chi in Svizzera promuove un’idea non armata di sicurezza collettiva non è mai stato facile. Anche le apparenti conquiste, per esempio la riduzione degli effettivi militari (che oggi si vorrebbero nuovamente aumentare), spesso sono state più frutto di una logica interna di razionalizzazione che delle critiche antimilitariste. Ma questa ondata di rimbalzo della guerra in Ucraina sembra rimandare ogni discorso sulla smilitarizzazione alla casella di partenza, un po’ come era successo negli anni Novanta, con il ciclo di guerre nell’ex-Jugoslavia arrivato subito dopo l’apparente fine della guerra fredda.

A tre mesi dall’inizio della guerra, e nonostante la presa di Mariupol, Putin continua a essere in grande difficoltà: l’Ucraina non entrerà nel suo impero e quel che forse ci rimarrà attaccato (almeno per un po’) è distrutto e ancor più incattivito, le voci contro la guerra in Russia continuano a manifestarsi nonostante le massicce incarcerazioni, la Nato si è ricompattata e si sta estendendo nel Baltico. Un disastro per Putin e per la “sua” Russia. Eppure il muscoloso autocrate una vittoria l’ha pur ottenuta, anche se in questo frangente non è in condizione di assaporarla: il futuro che ci ha apparecchiato gli somiglia parecchio – maschio, armato, violento. Naturalmente non è tutta opera sua: al di là di tutta la vomitevole retorica sul mondo libero, anche altri attori hanno dato il loro contributo. Ma Putin ha saputo essere un ineguagliabile catalizzatore del peggio.

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