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Sparare sui pacifisti. Niente di nuovo sul fronte occidentale (2022)

Una risposta ai soliti luoghi comuni sul movimento pacifista

Scritto la sera del 12 marzo, apparso il 16 su https://naufraghi.ch/sparare-sui-pacifisti/

 

Sparare sui pacifisti. Niente di nuovo sul fronte occidentale

Questa guerra ci sta colonizzando il cervello. Ci si pensa in continuazione. Quando tocco i termosifoni accesi al mattino, quando apro un rubinetto. Ovviamente quando ascolto le notizie – magari mangiando! – e quando leggo i commenti, che ogni giorno si moltiplicano.

Più volte, nei giorni scorsi, ho iniziato a mettere in ordine qualche pensiero, ma sempre rimanendo a metà strada, perché gli stimoli continuavano a moltiplicarsi e sovrapporsi (né hanno smesso di farlo, anzi) e a richiedere nuovi percorsi mentali. Un tema enorme sui cui avrei voluto dire qualcosa è quello dell’invio di armi in Ucraina, e ieri, 11 marzo, ho letto sulla «Regione» un editoriale che mi dà una spinta.

Una delle frasi più citate di questi tempi è quella di Eschilo su guerra e verità. Ma se la prima vittima della guerra è la verità, se le prime vittime in carne ed ossa sono i bombardati, mi verrebbe da aggiungere che le prime vittime dei discorsi in tempo di guerra sono i pacifisti. Siccome, chiudendo un occhio sulla genericità del termine, mi considero tale da parecchi decenni –  per la precisione dalla prima guerra del Golfo – è una cosa a cui sto particolarmente attento, anche perché mi cade addosso e mi ferisce (solo metaforicamente per fortuna).

Ecco le solite affermazioni, sentite a ogni guerra. Roberto Scarcella (di cui altre volte ho apprezzato gli articoli) sfodera tutti i luoghi comuni con sconcertante virulenza: pacifismo «romantico e ingenuo, da scuola elementare», «pacifismo da fumetto edulcorato», l’impotente «carro armato arcobaleno». Addirittura arriva a contrapporre la specchiata moralità delle multinazionali che lasciano la Russia al «groviglio fatto di vigliaccherie, egoismi e inconfessabili cattivi pensieri» da cui rampollerebbe il «pacifismo intransigente». Sarebbero così perversamente egocentrici, quei pusillanimi travestiti da colombe, da ritenere la resistenza ucraina «un impiccio» solo dopo aver preso atto del «conto salato del benzinaio». Senza «altruismo», senza «empatia» (qualità che devono essere una sua prerogativa). Si poteva dire di peggio?

Ma anche chi si esprime senza livore e senza riprovazioni, come fa oggi Carlo Silini sul «Corriere del Ticino», tutto sommato canta un ritornello non dissimile: «Che fine ha fatto il pacifismo? Dove sono finite le bandiere arcobaleno che garrivano al vento durante l’ultima carneficina guerresca europea, quella dei Balcani? I missili russi hanno distrutto anche il tabù  della pace a tutti i costi, baluardo morale e mentale del vecchio continente…». E via con il «pacifismo ingenuo» e col «pacifismo dogmatico». 

Torno a Scarcella, che già il 3 marzo aveva osservato che «ripudiare la guerra altrui solo perché la si osserva da lontano è miserando, oltre che adolescenziale». Ora fa notare con sarcasmo che «dai salotti a migliaia di chilometri dalle bombe, si invoca la pace». E se noi siamo nei nostri salotti, chi caldeggia gagliardamente una sorta di guerra per procura non scrive pur sempre dal suo ufficio o magari, in questi tempi di home working, da quello stessissimo salotto? Per rimanere a questo livello richiamo un aneddoto: qualche anno fa, in una pizzeria di Massagno, sono rimasto di sasso sentendo per la prima volta, dal tavolo lì accanto, in cui pasteggiavano rispettabili esponenti pipidini, un’espressione volgare e omofoba che più non si può. Mi verrebbe ora da ricordarla, a chi promuove senza remore, attraverso l’invio di armi, una guerra per interposti eroi. Non oso ripeterla, quella deprecabile espressione, ma Marco Palombi, sul «Fatto quotidiano» del 3 marzo, ha trovato il modo un po’ criptico di reinterpretarla: «Fare gli ucraini col Kiev degli altri» (e cita in chiusura di articolo una frase ben più importante di Vassilij Grossmann: «Esiste un diritto superiore a quello di mandare a morire senza pensarci due volte. È il diritto di pensarci due volte prima di mandare qualcuno a morire»).

Per fortuna che in quella stessa prima pagina della «Regione» viene ripreso, da «Naufraghi», un bell’articolo di Pietro Montorfani (https://naufraghi.ch/la-guerra-che-e-in-noi/ ), che richiamando un recente scritto di Tomaso Montanari affronta in termini più complessi la questione del pacifismo (comunque sempre problematica, anche per i pacifisti stessi, checché ne pensi Scarcella nella sua semplificazione, questa sì «da scuola elementare»; quanto all’intervento di Montanari, pure ripreso da «Naufraghi» https://naufraghi.ch/il-realismo-dei-pacifisti-contro-il-machiavellismo-della-politica/, andrebbe letto e riletto con attenzione). E non sembra aver visto o capito o considerato, lo Scarcella, le riflessioni che Giona Mattei ha proposto sul suo stesso giornale l’8 marzo. Impossibile riassumere qui le sue argomentazioni, ma ne ricopio le conclusioni: «Un pacifismo critico e realista, che non ha nulla a che fare con la rappresentazione dei pacifisti come "anime belle" che non avrebbero voglia di "sporcarsi le mani", si pone continuamente la domanda se la "giusta causa" per combattere una guerra non conduca a conseguenze reali che rischiano di essere ben peggiori del male contro il quale si è voluto scendere in battaglia. Questo non significa, in certe situazioni e come ultima ratio, non essere disposti a sostenere la resistenza contro un aggressore e un invasore. Lo scopo finale e principale, però, dovrebbe quasi sempre essere quello di promuovere e sostenere le trattative per la pace, cercando una mediazione realistica tra le parti. La pace non la si fa con gli amici, ma sedendosi a un tavolo con i nemici, ascoltando le loro ragioni e argomentazioni, anche se ci possono apparire e sono profondamente sbagliate, nella speranza che la pace che ne consegue possa essere la più giusta possibile, o il minore dei mali che possiamo realisticamente sperare di ottenere».

Porsi continuamente la domanda. Magari anche riconoscere la propria drammatica impotenza. Sentirsi ai margini, fuori gioco. Non sarebbe più facile assecondare l’onda e suonare i tamburi della “guerra giusta”?

Anche quel continuo appello al “doversi schierare” fa parte della colonizzazione bellica del cervello, nella misura in cui si riconosce solo la possibilità di scegliere pienamente l’una o l’altra parte. La guerra impone un mondo rozzamente bipolare, anche nelle argomentazioni. E allora cessa di esistere una realtà complessa e tutto viene ridotto ad affermazioni univoche, dicibili e considerabili solo da una parte o dall’altra. Prendiamo il tema, spesso richiamato in queste settimane, della politica della Nato negli ultimi decenni. È vero che in certi ambienti – in vario modo nostalgici dell’impero sovietico e della Guerra fredda – si è costruito un discorso riduzionistico che giustifica l’aggressione di Putin come naturale risposta alla pressione atlantica verso est. Ma anche chi ricorda l’allargamento dell’alleanza militare nell’intento di chiarire criticamente il contesto in cui è cresciuta l’ingiustificabile aggressione passa ormai per filoputiniano. Quindi: o se ne nega la natura problematica, e allora si è nel giusto e contro l’aggressore (e in questa semplificazione purtroppo è caduta proprio oggi, sempre sulla «Regione», anche Greta Gysin), oppure si fanno dei “distinguo” che “giustificano questo orrore” (parole sue). Eppure deve rimanere possibile ragionare su questo momento drammatico sfuggendo da un bicromatismo che non è azzurro e giallo ma bianco e nero. Lo fa per esempio il filosofo Etienne Balibar in un’intervista di Mathieu Dejean, ripresa sempre oggi, 12 marzo, su «Naufraghi» (https://naufraghi.ch/chi-puo-fermare-putin-il-popolo-ucraino-e-il-popolo-russo/ ). Balibar si dichiara favorevole all’invio di armi all’Ucraina, ma lo fa senza banalizzazioni dogmatiche, soppesando criticamente quanto fatto fin qui da una parte e dell’altra, considerando i rischi e senza esecrare chi la pensa diversamente. Così come fa, giungendo a una conclusione diversa, Marco Revelli (anch’egli ripreso da «Naufraghi», 11 marzo: https://naufraghi.ch/il-virus-della-guerra-lantidoto-della-memoria/ ). Dopo aver richiamato «lo spettacolo di brutalità “putiniana” che ogni giorno irrompe dal video nelle nostre case e a cui non si riesce a immaginare una risposta adeguata», scrive: «L’evocazione delle armi, lo so bene perché in parte non ne sono immune, in queste circostanze è quasi istintiva, per tentare di saziare una fame di giustizia. Ma credo che anche in queste circostanze, accanto alla weberiana “etica dei principi”, che si orienta ai valori universali (e astratti), debba praticarsi la simmetrica “etica della responsabilità” che vede le conseguenze dell’agire e si sforza di calcolarne l’adeguatezza al fine. E qui l’inadeguatezza, o peggio la contrapposizione della moltiplicazione delle armi sul terreno rispetto al fine, se questo è la pace e comunque il risparmio maggiore possibile di sofferenze e di vite umane, mi pare evidente». È su questo terreno, dell’uno e dell’altro, pur nelle conclusioni divergenti, che va condotto il discorso. Per crescere e non per sparare sentenze. 

Per tornare al pacifismo, all’insistenza sugli strumenti nonviolenti di risoluzione dei conflitti, al rifiuto della guerra: in questo momento forse ha le armi spuntate (e in fondo in questo è naturale). Si tratta di un pensiero divergente che si esprime nelle manifestazioni delle piazze d’occidente, ma anche in altre forme (certo ben più rischiose) in altri luoghi. Durante le guerre che hanno sconvolto la ex-Jugoslavia negli anni Novanta avevamo solidarizzato soprattutto con obiettori e disertori, e con tutte coloro (soprattutto donne) che la guerra la rifiutavano, a caro prezzo, dall’interno. Ora, accanto alla resistenza degli ucraini, a giocare un ruolo fondamentale sarà la reazione interna in Russia. Che c’è, nonviolenta, e che bisogna appoggiare quanto possibile: non è facile sapere come. Gente che scompare, “diversamente eroica”, subito impacchettata dalla polizia. Tutto quanto è testimonianza di rifiuto della guerra, sia nelle nostre piazze arcobaleno sia nelle più pericolose strade di Mosca, contribuirà magari più delle armi che prolungano il conflitto alla fine del regime putiniano, o almeno al suo indebolimento. Ne sappiamo poco, ma anche le madri dei soldati mandati a invadere l’Ucraina cominciano a farsi sentire.

E se chi non privilegia il sostegno militare alla resistenza armata è soltanto un romantico ingenuo e infantile, si trova pur sempre in compagnia di persone non del tutto sprovvedute. Prendiamone due. Pino Arlacchi, già sottosegretario generale alle Nazioni Unite: «Mandare un po’ di missili e munizioni a Kiev e raccontare che in questo modo si rovesciano le sorti di una guerra il cui esito è segnato al 95% è solo un esercizio di irresponsabilità. Serve a indurire ulteriormente la Russia, esasperare il conflitto e rendere più arduo il negoziato che lo concluderà». O il padre comboniano Alex Zanotelli: ritiene «una follia» l’invio di armi e ricorda, con Papa Francesco (che ogni tanto fa comodo, ogni tanto no), che «oggi, con la proliferazione di armi nucleari e batteriologiche, non può esistere una guerra giusta».

È ora di chiudere. Tante citazioni, forse troppe. Ma ci aiutano a non farci colonizzare per davvero il cervello da questa guerra: a non ridurci a credere che protrarre una guerra possa essere una soluzione desiderabile. Mi vorrei firmare Peter Pan, ma sono entrato nell’età adulta da tempo, putroppo. E come me tanti altri che si ostinano, quando c’è una guerra, a scendere in piazza per invocare le ragioni della pace (e lo si fa in primo luogo all’indirizzo di chi aggredisce). Non sono meno adulti di chi, dal proprio ufficio e con sano realismo, ritiene di dover sostenere senza tentennamenti la resistenza armata e l’eroico prolungamento del massacro.

Danilo Baratti

 

pacifismo, guerre, Naufraghi, 2022

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