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Un’opportunità un po’ inopportuna (2010)

Dubbi sull'iniziativa del Gruppo per una Svizzera senza esercito che chiede l'abolizione dell'obbligo di prestare servizio militare

Un’opportunità un po’ inopportuna

Ho accolto con grande perplessità, anzi con fastidio, il lancio dell’iniziativa popolare per l’abrogazione dell’obbligo di servire da parte del GSse. Non ho raccolto firme e non l’ho firmata. In sé la proposta era nell’aria. La coscrizione obbligatoria è il prodotto di una determinata fase storica dell’evoluzione degli eserciti. Il cambiamento della nefanda arte della guerra e altre profonde trasformazioni sociali e politiche hanno portato parecchie nazioni a passare dall’esercito di leva a eserciti di professionisti.

L’iniziativa pone almeno due problemi, di diverso ordine. Il primo riguarda le conseguenze di questa iniziativa sul futuro assetto militare della Svizzera. Il secondo l’identità del GSse e più in generale l’impostazione del discorso antimilitarista. I due ambiti non sono tuttavia separabili nettamente: mi sembra anzi impossibile parlare del secondo senza che nella riflessione irrompa anche il primo.

Antimilitarismo e razionalizzazione dell’esercito

Anche se i fautori dell’iniziativa tendono a negarlo, è probabile che l’abolizione dell’obbligo porterà verso una professionalizzazione dell’esercito (in che misura ciò avverrà è irrilevante ai fini del mio discorso). Un esercito più snello e meglio armato, libero dalle costrizioni dell’obsoleto sistema di milizia, è anche l’obiettivo di una parte dell’establishment politico e militare. Che la lotta antimilitarista finisca per avere l’effetto indesiderato di favorire e accelerare le riforme interne all’esercito, dettate dalla ricerca di una maggiore efficienza, è forse inevitabile. In fondo l’effetto più concreto delle due iniziative per l’abolizione dell’esercito è stato questo. La mazzata del 1989, quando oltre un terzo dei cittadini svizzeri ha votato SI, ha intaccato fortemente il mito dell’esercito svizzero ma ha anche imposto/permesso di affrontare il tema del cambiamento, della razionalizzazione, dello svecchiamento di un’istituzione diventata, come dicevamo allora, una vera e propria vacca sacra. Smitizzazione (dirompente) e “modernizzazione” (lenta) sono stati i due effetti di quel voto imprevisto e scioccante. La seconda iniziativa abolizionista, con il suo relativo insuccesso (poco più del 20% di consensi, ottenuti però in una situazione internazionale molto mutata, quella del dicembre 2001), ha invece mostrato che “l’esercito non si tocca”, a maggior ragione se riesce a dare l’impressione di sapersi rinnovare e assumere nuovi compiti. Quindi se la nuova iniziativa finisce per favorire l’avvento di un esercito di professionisti, potremmo concludere che si tratta di un altro “effetto collaterale” generato da una sacrosanta politica antimilitarista. Non è così, e la differenza sta nelle premesse.

La radicalità smarrita del discorso

In verità le due iniziative precedenti, pur condannate all’insuccesso, avevano permesso di portare in modo chiaro il discorso sulla smilitarizzazione e sulla soluzione non violenta dei conflitti. Proprio in questa chiarezza stava il contrappeso positivo rispetto ai favori indiretti fatti ai modernizzatori dell’esercito. In questo stava la loro forza, il loro senso. L’obiettivo realistico non era l’abolizione dell’esercito ma l’apertura e poi la continuazione di una discussione di fondo sullo strumento militare e sulla visione del mondo che lo giustifica. Difficilmente l’attuale iniziativa potrà assolvere questa funzione, che dovrebbe restare la priorità del Gruppo per una Svizzera senza esercito. Il dibattito si sposterà, forzatamente, sulla bontà e sui limiti dell’esercito di milizia (anche se i fautori dell’inizitiva dicono che l’abolizione della coscrizione obbligatoria non comporta necessariamente la cancellazione dell’esercito di milizia). In ogni caso si discuterà di «che esercito vogliamo» e non di «che alternativa non militare possiamo immaginare».

Ho detto che i tempi per una proposta di questo genere erano maturi. Maturi, però, in una logica interna all’organizzazione e alla gestione dell’esercito. Che le varie forze politiche – dai socialisti all’UDC – aprano un dibattito su come debba essere concepito e strutturato lo strumento militare alla luce dei cambiamenti socio-economici e del quadro internazionale mi pare logico. Che questo genere di dibattito venga promosso dal GSse un po’ meno. Certo, il gruppo è intervenuto anche in passato su aspetti specifici dell’organizzazione militare, come l’acquisto degli aerei di combattimento, ma pur sempre in un’ottica di chiaro rifiuto: impedire quell’uso del denaro pubblico e mettere i bastoni tra le ruote. Qui il percorso mi sembra invece più infido, difficile, ambiguo...

Delegare, non scegliere

 Gli aspetti problematici di questa proposta sono anche altri, e bisognerà tornare a discuterne. Un tema importante è quello del destino del servizio civile una volta caduto l’obbligo (e il suo rifiuto) che l’ha generato. Accenno rapidamente alla questione in un’ottica un po’ particolare. Sarà certamente facile raccogliere le firme tra i giovani: quasi nessuno vuole “fare il militare”. Io insegno in un liceo e vedo che sono tuttavia pochi – benché il numero di “civilisti” sia in aumento – gli studenti che di fronte alla visita di reclutamento si pongono seriamente la domanda sul da farsi. In genere si spera di essere “scartati” e ci si rassegna al proprio destino. Però c’è chi riflette, chi fa una scelta che può avere un forte significato esistenziale. In qualche modo la coscrizione/costrizione esige una risposta. La professionalizzazione consente pienamente la delega e la deresponsabilizzazione. Con questo non voglio teorizzare la bontà della coscrizione obbligatoria. Sono per l’abolizione dell’esercito. 

Danilo Baratti, GSse

(Un’opportunità un po’ inopportuna. Perplessità e problemi legati all’iniziativa del GSse, «Nonviolenza» n. 1, dicembre 2010, p. 17)

GSse, esercito, Nonviolenza, 2010

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