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«Per il divieto di esportare materiale bellico» (2009)

Intervento alla conferenza stampa del comitato a favore dell’iniziativa popolare

Intervento alla conferenza stampa del comitato a favore dell’iniziativa popolare «Per il divieto di esportare materiale bellico» (Bellinzona, novembre 2009)

Il baricentro del dibattito intorno all’iniziativa che proibisce l’esportazione di armi tende purtroppo a spostarsi sulla questione dei posti di lavoro e a perdere quindi la sua centralità etica. Anche ammettendo che si produrrebbe una perdita netta di posti di lavoro, gli effetti complessivi sulla società svizzera sarebbero assolutamente secondari di fronte al peso costituito dalla dimensione morale e simbolica di quella proposta.

Ma entriamo pure in tema di posti di lavoro partendo da due diverse valutazioni. La prima è quella delle nude cifre che misurano il Prodotto interno lordo e la crescita quantitativa. In questo senso la produzione di armi agisce meravigliosamente, e in buona parte legalmente, sulla crescita economica: le armi vengono prodotte (= posti di lavoro) con materie prime che qualcuno avrà prima estratto dalla terra (= altri posti di lavoro, all’estero), vendute, esportate (= ancora lavoro, ma soprattutto profitti di chi lucra sul lavoro altrui) e infine magari usate (= nuovo lavoro, questa volta militare) e poi: morti, feriti, distruzione di manufatti e di natura e quindi occasione di ulteriori balzi in avanti del PIL dei paesi sconvolti dalla guerra e dei paesi che li aiutano (spese nella cura dei feriti, ricostruzione delle infrastrutture, sminamento e altre attività di decontaminazione, necessità, infine, di rimpiazzare il materiale bellico consumato...). Sarà un po’ caricaturale, ma è l’esposizione del circolo virtuoso che caratterizza la produzione di armi, che si sviluppa nella sua pienezza se alla fine si giunge anche al loro impiego, al loro consumo.

Ovviamente si può guardare a questo ciclo con altri occhi, senza fingere di non vedere quanto si nasconde dietro la creazione di tanto lavoro. È facile iniziare dagli effetti dell’uso di questi particolari prodotti: morte e devastazione. Se la quantità di lavoro e di materia impiegata può essere simile, un conto è costruire una locomotiva, un altro è costruire un carro armato. Si possono prendere in considerazione altre caratteristiche di quella produzione: innanzitutto è particolarmente “pesante” (sul piano dei consumi di materie prime e di energia) e costituisce un’incredibile forma di spreco di risorse. O le macchine di morte vengono utilizzate in guerra (è il grado minimo di spreco, con gli effetti perversi che comporta) o vengono utilizzate, come fanno tutti gli eserciti, in esercitazioni (con ulteriore aumento dei consumi e dell’impatto ambientale) o ancora vengono immagazzinate, in attesa di essere sostituite per obsolescenza, dato il continuo sviluppo tecnologico in questo campo e la necessità di stare al passo. Forse non esiste al mondo una produzione più intrinsecamente caratterizzata dallo spreco.

La crisi attuale dell’economia ha spinto molti ad auspicare un “Green New Deal”, con un ruolo attivo dello Stato nel riorientamento della produzione industriale e dell’intero apparato economico verso la sostenibilità, con la riduzione e la trasformazione di alcuni settori produttivi (si pensi a quello automobilistico, fortunatamente in crisi) e il sostegno allo sviluppo di altri settori, con la conseguente creazione di nuovi posti di lavoro (e qui l’esempio più citato è quello delle energie alternative). La crisi si trasformerebbe dunque, com’è potenzialmente il caso di ogni passaggio critico, in una preziosa opportunità di cambiamento. La rinuncia a esportare armi, con la conseguente contrazione della produzione bellica elvetica, va vista anche in quest’ottica, come opportunità di riconversione di un settore particolarmente “pesante”, che produce conseguenze perverse in sé (già proprio per questo consumo di natura), elevate poi all’ennesima potenza dalla perversità dei suoi risultati ultimi sulla vita degli individui e delle società e sull’ambiente. 

L’iniziativa, come è stato ricordato, prevede espressamente il sostegno della Confederazione alle regioni e ai lavoratori toccati dal divieto d’esportazione. Sarà allora importante che questi investimenti vadano verso la creazione di impieghi sostenibili, legati alla valorizzazione delle risorse locali, a una produzione ad uso civile più “leggera” e socialmente utile. 

Un’ultima osservazione: buona parte di coloro che oggi lanciano accorati allarmi per la perdita di posti in questo settore, magari moltiplicandone il numero, non hanno fatto sentire la loro voce quando, in seguito alle ricorrenti “ristrutturazioni”, sono andati presi negli ultimi anni migliaia e migliaia di posti di lavoro (spesso con il parallelo aumento di valore delle azioni delle imprese ristrutturate). Posti di lavoro cancellati, e basta. Spesso da un giorno all’altro. Per i circa 5 mila impieghi e le regioni eventualmente toccate dal divieto di esportazione, è invece previsto dalla stessa iniziativa un sostegno finanziario della Confederazione, che costerà molto, ma molto meno del salvataggio di quelle banche che hanno generato la perdita di migliaia di impieghi. Le giustificazioni di chi oggi combatte l’iniziativa sono in fondo l’emblema di questa economia ipocrita e violenta, che a ogni secondo distrugge lavoro e vite in nome del massimo profitto a breve termine.

Danilo Baratti

2009, votazioni, guerre, armi

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