La dimensione narrativa della storia (2017)
Leggendo Guardare avanti e altrove di Raffaello Ceschi
La dimensione narrativa della storia*
Mi è stato chiesto di intervenire sulla sezione intitolata Insegnamento della storia. Devo premettere che non ho avuto Raffaello come docente, né come esperto quando insegnavo alla scuola media, né come collega quando insegnavo nel settore medio superiore. Inoltre, nelle nostre conversazioni, non abbiamo parlato molto dell’insegnamento della storia. E nemmeno, da quel che mi ricordo, della scuola in generale. Mi sono quindi avvicinato a queste pagine senza preconoscenze specifiche, se non quelle di Raffaello come ricercatore, divulgatore e amico. Non posso poi vantare qualifiche particolari nel campo della riflessione teorica intorno alla storia e al suo insegnamento. Qui parlo semplicemente in base alla mia esperienza, che definirei artigianale, di docente.
A dispetto del titolo dato al libro, alcuni articoli di queste pagine centrali, soprattutto quelli apparsi sulla rivista dipartimentale «Scuola ticinese», sembrano proprio farci guardare indietro, fanno stato di situazioni lontane, e non solo nel tempo. Per esempio leggendo il primo, che riferisce di un seminario della Commissione romanda dell’educazione civica europea del 1973, siamo portati in una discussione che sembra del tutto sganciata dalla realtà che ho conosciuto nei miei anni di insegnamento della storia. Molto spazio è dato alla relazione di uno storico belga, che invita a «délivrer Clio des prisons nationalistes», mette in guardia dai pericoli del «naziocentrismo» e del «territorialismo», suggerendo infine di «inserire la storia regionale e nazionale in una corretta prospettiva europea» (pp. 95-96). Preoccupazioni che suonano strane alle orecchie di un insegnante liceale ticinese, visto che in questi ultimi decenni la storia che proponiamo ha invece un taglio prevalentemente eurocentrico, con momenti in cui lo sguardo si apre a una prospettiva planetaria, e il problema sta semmai nel trovare tempi e modi per inserire, a volte acrobaticamente, momenti e temi di storia svizzera (su questo torno dopo). Poi, verso la fine dell’articolo, nella sintesi dell’intervento di un redattore di «Le Monde», si legge che «in parecchi paesi il sentimento europeo è largamente diffuso, ma in generale l’opinione pubblica non si sente di andare oltre certi limiti, sia perché abituata a interessarsi prevalentemente di politica interna, sia perché i popoli temono di perdere la loro identità etnica e culturale» (p. 98). Ecco che anche un articolo molto datato – sono passati più di quarant’anni – finisce per creare un cortocircuito con i problemi del presente. E non è escluso, con l’aria che tira, che fra non molto saremo chiamati anche noi a combattere contro il «naziocentrismo» nell’insegnamento della storia.
Dal primo articolo passo all’ultimo: l’intervento che chiude questa breve sezione, La storia della scuola e la storia nella scuola, oltre a essere il più recente è secondo me il più importante. Parla soprattutto della scuola elementare ma alcune considerazioni possono essere estese a tutti i settori.
Nella prima parte Raffaello ripercorre brevemente l’affermarsi della pubblica educazione e ne segnala alcune contraddizioni di fondo. Ne riprendo due sulle quali non bisognerebbe mai smettere di riflettere:
«Dalle sue origini, la scuola pubblica dovrebbe contemporaneamente assumere una funzione liberatrice e un ruolo disciplinatore, poiché riceve il compito di formare gli individui autonomi e di integrarli poi nelle gerarchie sociali»;
«Alla scuola si chiede di essere sia luogo di solidarietà, sia palestra di competizione» (p. 130).
Nelle pagine di questa «storia della scuola» compaiono solo due nomi, che quasi parlano da sé: Edmondo De Amicis e Michel Foucault. Ne approfitto per osservare come Raffaello non faccia mai sfoggio delle sue letture infarcendo il testo con una pletora di autori di riferimento o esibendo riferimenti ammiccanti, à la page: erano soprattutto le conversazioni private a svelare una curiosità onnivora e conoscenze sorprendenti.
Passando poi alla «storia nella scuola», Raffaello ricorda come nei primi programmi ottocenteschi si trattasse soprattutto di storia sacra, imparata a memoria, con storia patria, geografia e civica riservate agli ultimi due anni dell’obbligo. Poi, sul finire del secolo si afferma la necessità di insegnare «la Geografia, la Storia e la Civica come inseparabili l’una dall’altra» e di procedere secondo il «metodo retrospettivo», cominciando a «far narrare dai fanciulli qualche fatterello della loro infanzia» per poi passare, su su con gli anni, alla storia più recente del Ticino e della Svizzera, e quindi ai tempi più remoti. Un’impostazione, ancora presente in qualche misura nei programmi di fine Novecento, di cui Raffaello discute acutamente i rischi (pp. 133-138).
E poi dice qualcosa che rimanda a un dibattito molto attuale:
Ho l’impressione che la grande attenzione posta dai programmi sui metodi adatti a suscitare negli allievi una coscienza storica, la percezione delle trasformazioni nel tempo e una visione prospettica del reale, abbia favorito una intensa riflessione didattica, ma messo però in ombra l’aggiornamento culturale nella disciplina, lasciando quasi intendere che i contenuti possano essere scelti a piacimento. Ma così non è: sono convinto che una efficace impostazione didattica possa essere costruita solo su una solida consapevolezza disciplinare, e che convenga dunque centrare l’aggiornamento dei maestri sul versante della disciplina storica. (p. 139)
Ebbene, è l’esatto contrario di quanto sta accadendo, anche nella scuola media: la «solida consapevolezza disciplinare» è messa in secondo piano e il docente dovrebbe essenzialmente essere, secondo i pedagogisti che indirizzano le attuali scelte dipartimentali, un “tecnico dell’apprendimento” che gestisce “situazioni-problema” (proposte da lui, non certo dai ragazzi) atte a favorire l’apprendimento. Un tecnico tendenzialmente intercambiabile.
Voglio mettere ancora l’accento su un paio di frasi che appaiono verso la fine dell’articolo:
«l’insegnamento storico deve suscitare curiosità e piacere per la storia»;
«sul piano delle procedure o degli strumenti, converrebbe dunque recuperare la dimensione narrativa della storia e cercare di armonizzare la ricerca (che riprodotta nella scuola risulta spesso una simulazione) con la narrazione» (pp. 141-142).
Queste affermazioni dovrebbero guidare l’insegnante di storia in ogni ordine di scuola. Man mano che si procede nell’apprendimento della storia il confronto con le fonti dev’essere certo più intenso e serrato, con un crescente avvicinamento dello studente al metodo storico, ma resta il fatto che la storia a scuola rimane prevalentemente e inevitabilmente un percorso di trasmissione parziale di un sapere complesso e precostituito, faticosamente precostituito in una sedimentazione senza fine di ricerche, interpretazioni, confronti. Parafrasando Jannacci: «la storia non si inventa!»[1], con buona pace degli integralisti del socio-costruttivismo. La storia, per usare due verbi un po’ fuori dal tempo, si impara e si studia.
Nella storia – scienza tra virgolette, scienza inesatta, scienza morbidissima – la dimensione narrativa ha un peso rilevante. La storia, o meglio questa o quella interpretazione del passato, si racconta, si dice, si espone, si spiega. Ci vuole un racconto che leghi i fatti e che dia senso agli eventuali momenti di ricerca esercitata (ricerca che, dice Raffaello, nella scuola, o perlomeno nella scuola che conosciamo oggi, non può che essere una simulazione). Ho invece l’impressione che sia in atto una tendenza alla cancellazione della dimensione narrativa della storia[2]. Le ragioni sono parecchie, e di diversa natura: le nuove mode pedagogiche, che di fatto presuppongono un sapere che non si trasmette ma si crea da sé; l’evoluzione tecnologica, che da un lato riduce la capacità di ascolto e di concentrazione, e dall’altro (e qui il gatto si morde la coda) porta i docenti a ricorrere sempre più spesso a strumenti come il power point, che rischiano di annientare ogni potenzialità narrativa. Ma anche il lodevolissimo sforzo di portare gli studenti a lavorare direttamente sui documenti porta spesso a trascurare quella dimensione. La storia nella scuola non deve produrre tanti piccoli storici da laboratorio, ma persone coscienti del proprio e altrui passato, e delle relative implicazioni.
Mi fermo, perché non vorrei piegare Raffaello al mio discorso, un po’ fuori linea rispetto alla tendenza dominante[3]. In ogni caso, la cura della dimensione narrativa è presente in tutti i suoi scritti, che ci avvicinano ai fatti studiati in forma scorrevole, con lingua precisa e garbata. Che si tratti di saggi tematici o di grandi sintesi, sempre si coglie, dietro la narrazione, il solido retroterra delle fonti, che Raffaello introduce direttamente nel discorso con molta misura, quasi in dosi omeopatiche. Restando in campo omeopatico, si può dire che Raffaello sa poi dinamizzare bene le rare citazioni, conferendo energia a tutto il discorso.
La capacità di sintetizzare i fatti storici e di esporli in forma accessibile ma non scontata è evidente anche nei suoi documentari per la televisione di cui ci parla un altro articolo di questa sezione (Momenti di storia ticinese alla Telescuola) e nella serie successiva dedicata all’Ottocento ticinese (ma è ben illustrata anche da alcuni scritti ripresi in questo volume, come L’edificazione del Cantone Ticino come processo pedagogico, pp. 116-126).
Nell’introdurre la proposta di Telescuola, Raffaello avverte che i documentari erano stati pensati per «un pubblico vasto e non specializzato», non «prioritariamente per gli allievi delle nostre scuole medie» (p. 103). Gli è ben chiaro che si tratta di due pubblici diversi. Tuttavia alcune puntate, almeno in quegli anni Ottanta, si prestavano certamente anche a un uso scolastico, magari con qualche interruzione, qualche spiegazione e qualche taglio. Mi ricordo di aver mostrato a classi della Scuola Cantonale di Commercio – e dovevano essere ancora le vecchie videocassette VCR, quelle alte e quadrate – parti dei capitoli sulla riforma (L’esilio dei locarnesi) e la controriforma (Il cardinale di ferro). Oggi questi documentari sarebbero però improponibili nella scuola. Non certo per i contenuti, che restano validi, non certo per il linguaggio – che, nonostante il crollo della competenza lessicale dello studente medio, resta comprensibile – ma per il montaggio, troppo lontano dalle odierne abitudini di video-fruizione dei ragazzi, incompatibili con il ritmo lento e denso di un’esposizione che invita a cogliere sfumature e dettagli. Ma poi questi documentari si sono trasformati in testo, e in quella forma si prestano ancora oggi a fornire un buon supporto alla trattazione di temi di storia ticinese. Ancora recentemente mi è capitato di utilizzare pagine dell’Ottocento ticinese, in particolare quelle relative al lavoro minorile. Ma soprattutto, tra le efficaci sintesi divulgative di Raffaello, ho regolarmente usato, anno dopo anno, un testo credo poco noto (e colgo l’occasione per segnalarne l’esistenza): la Breve storia della Costituzione svizzera apparsa in un’insolita pubblicazione del 1975[4]. Parlavo all’inizio delle difficoltà di inserire momenti di storia svizzera in una trattazione che ha un respiro prevalentemente europeo, a tratti mondiale. Quel testo di Raffaello si presta egregiamente a ricapitolare, in una prospettiva svizzera ma con una valenza più generale, aspetti fondamentali del periodo che va dalla società di Ancien Régime all’affermazione delle costituzioni liberali.
Torno al libro di cui parliamo questa sera. Pur trovando indubbi motivi di interesse nella sezione intitolata Insegnamento della storia, penso tuttavia che sia quella successiva, intitolata Riflessioni sulla storia, a rivelare meglio la ricchezza del pensiero di Raffaello. Anche quando parte da oggetti storiografici magari modesti – per esempio una pubblicazione del Museo delle Centovalli o un numero del «Bollettino della Società storica locarnese» – coglie implicazioni inattese, porta lo sguardo lontano, apre orizzonti, suggerisce riflessioni fondamentali (per esempio sul rapporto tra storia e memoria): invita a guardare avanti e altrove.
(La dimensione narrativa della storia, «Archivio storico ticinese», n. 161, giugno 2017, pp. 133-138)
* Il testo, con ritocchi minimi, corrisponde alla bozza preparata per la presentazione del 13 dicembre 2016. Ulteriori considerazioni, intese a precisare alcuni passaggi, sono esposte in nota.
[1] In realtà Enzo Jannacci, in un assurdo monologo del 1975, parlava del misterioso Frieden (che sa tornare dal Kenia) e non della Storia. È il tono perentorio e burlone di quel suo «non s’inventa!» che vorrei sentir suonare in questa affermazione. Un ragazzo può certamente intuire da solo dove piazzare il fulcro di una leva di primo genere affinché questa sia vantaggiosa, e trarne poi delle conclusioni generali, oppure riconoscere da sé la natura irregolare di certi verbi, ma difficilmente potrà capire la crisi religiosa del Cinquecento, se qualcuno – un docente, o l’autore di un manuale, o anche Luther Blissett – non gli spiega alcune cose (poi sulle modalità di trasmissione delle conoscenze si potrà discutere a lungo, ma questo è un altro problema).
[2] Proprio mentre stavo mettendo assieme queste riflessioni, un amico storico (e docente di storia), mi diceva che suo figlio – ora all’università a studiare storia e impegnato ad accumulare crediti con continue esercitazioni di varia natura – se n’è uscito recentemente con questa esclamazione: «Ma insomma, questa storia non ce la raccontano mai!». E se provassimo a riconoscere in questa esigenza una verità almeno pari a quella degli “scienziati” dell’educazione che chiedono ai docenti di organizzare il lavoro degli allievi ma di non dire? Invece si arriva a suggerire (imporre) ai docenti in formazione di non rispondere alle domande degli studenti, magari frutto urgente di curiosità autentica, ma di ributtarle sistematicamente al mittente. Per il bene di quest’ultimo, s’intende: che possa costruire le proprie conoscenze attivando le esperienze precedenti (nel contempo si vorrebbe forse evitare che il docente stabilisca un rapporto di potere fondato sul proprio sapere disciplinare; e però lo si spinge – funzionario di una macchina educativa che recupera ambiguamente frammenti di un discorso emancipatorio e ne stravolge il senso – a imporre artificiose “situazioni-problema” e a giudicarne gli esiti con pletorici cataloghi di competenze).
[3] Alla fine della presentazione un ex-collega, infastidito per il tono di disapprovazione implicito nel mio uso di “tecnico dell’apprendimento” e per l’accenno critico al sociocostruttivismo, anzi ai suoi più fanatici interpreti, mi ha dato del talebano (proprio così) perché non ammetterei altra forma didattica che non sia quella che piace a me. Ho cercato di dirgli, e lo ripeto qui, che stava rovesciando la realtà delle cose, perché è invece l’istituto di formazione dei docenti a imporre una forma di pensiero unico in ambito pedagogico e didattico. Io difendo al contrario una pluralità di approcci e la libera scelta delle strategie didattiche. Qui ho sottolineato la centralità della dimensione narrativa della storia, ma questa può declinarsi in forme assai differenti (perfino nel ricorso al power point, se usato con intelligenza) e all’interno di relazioni pedagogiche diverse. Ritengo d’altra parte che ogni riflessione sulle dinamiche dell’apprendimento, sociocostruttivismo compreso, sia salutare e benvenuta. Ma se l’approccio sociocostruttivista diventa dogma e metodo universale, è dovere dei docenti, in nome della propria libertà culturale e dignità professionale, criticarlo e resistervi. Quanto a me, sono d’accordo con chi auspica «spazi a debole densità pedagogica, nei quali cioè la trama del potere formativo si allenti e si sveli», «spazi pedagogici depotenziati, dove prevalga una logica orizzontale» e «una strategia del passo indietro, dello scarto, della creatività anche nei rapporti all’interno dei quali circola il potere, contro una pedagogia invasiva» (F. Trasatti, Lessico minimo di pedagogia libertaria, Milano 2014, 44-45); sono per un’educazione più orientata all’accompagnamento che all’insegnamento unidirezionale, certamente lontana dalla scuola tradizionale fondata sulla trasmissione coatta di conoscenze ma lontana anche dal soffocante pedagogismo prescrittivo e monopolistico che si sta affermando (e che di quegli auspici libertari è la caricatura).
Il discorso, ovviamente, è lungo e complesso, e mi piacerebbe poterne parlare con Raffaello. Gli racconterei di come un docente già in là cogli anni, ma con il cieco entusiasmo del neofita, agli albori di questa “onda” sciagurata si fosse opposto al fatto che i suoi colleghi, in un lavoro pluridisciplinare dell’ultimo anno del medio-superiore (!), dessero qualche indicazione bibliografica agli studenti che dovevano lavorare per un anno sui conflitti del Medio Oriente. O di come quello stesso collega, di fronte alla necessità, sentita dal gruppo, di dare qualche dritta in merito alle concezioni del diritto nel mondo islamico, si fosse recisamente rifiutato di farlo, perché gli studenti dovevano semmai arrivarci da soli (!). Chissà, magari gliene avevo anche parlato, a Raffaello, visto che era ancora tra noi. Ma soprattutto gli racconterei quanto mi hanno riferito e mi riferiscono i docenti in formazione all’IAA, poi ASP, oggi DFA. E gli direi – rassicurandolo – che se molti assumono passivamente la dottrina e si tramuteranno in impeccabili “tecnici dell’apprendimento”, altri, per usare un termine ora un po’ alla moda, si dimostrano invece resilienti. Passano l’acqua bassa, magari saggiamente, e guardano ai nuovi dogmi con sano scetticismo. E finché c’è resilienza c’è speranza. Un giorno forse, anche grazie a loro, si parlerà di questa religione pedagogica come di una curiosa infatuazione che imperversava a cavallo tra secondo e terzo millennio.
[4] R. Ceschi, Breve storia della Costituzione svizzera, in Costituzione svizzera in edizione integrale. Commenti alla Costituzione e cenni di storia svizzera nell’ambito dell’Europa contemporanea, a cura di E. Juilland, J. Juilland e R.A. Rizzo, s.l. 1975, 10-16.
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