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Rapporto dalla città picconata (2017)

Recensione di un libro a più voci sulla distruzione del quartiere luganese di Sassello

Guardare al Sassello. Rapporto dalla città picconata

«Non è nostra intenzione insensata dipingere un Sassello con tinte più nere e diacce dell’inferno: è vero che si cantava e fischiettava – ‘canta che ti passa’ potremmo ironicamente commentare – com’è vero che vi si gelava dal freddo e ci si ammalava d’umidità; vero il lavoro profuso in tempi agiosi e variati ma altrettanto reali la disoccupazione, il sottoimpiego stagionali nell’autunno-inverno per i fattorini, giornalieri, braccianti, calzolai, lavandai, barcaioli, ambulanti, arrotini e altri che vivevano della Lugano turistica; autentica la solidarietà intestina, la difesa feroce della propria prole nei confronti dell’autorità (scolastica, poliziesca, etc.) come pure per contro l’ostilità (contraccambiata) verso gli estranei più fortunati e abbienti, la crudeltà degli scherzi, gli atti vandalici». Così scriveva Luigi G. Herz, nella prima parte del notevole Verso Babilonia[1], facendo il controcanto alla Lugano del buon tempo di Mario Agliati («... ma potremmo dire ch’era un andare e venire da formicaio o da apiario, un lavorare e un chiacchierare, un cantare, un fischiettare, un chiamarsi, fors’anche più che non in Nassa...»). Ancora Herz: «L’operazione [...] edulcorante e snaturante dell’ambiente del quartiere malfamato di Sassello che l’Agliati propone nell’età del ‘boom economico’ non ci serve a comprendere il passato della città, neppure ad amarlo, certamente spinge a fraintenderlo. Sassello è un bubbone sul corpo della città; né è possibile addolcire il suo rapporto con il resto della Lugano ‘vecchia’ (ma nuova!). Soltanto dopo la sua estirpazione dal tessuto urbano se ne potrà moderatamente e da parte di pochi parlare dall’esterno, dal mondo-del-senno-di-poi, con quella lievità d’animo che è concessa dopo aver bene tirato il fiato. Bubbone sì: dal punto di vista sanitario, igienico, urbanistico, morale, sociale insomma».

Mi erano tornate in mente queste righe, con la parola che ho evidenziato in corsivo, all’annuncio, nell’aprile del 2015, di un pomeriggio di studio intitolato Sassello, il quartiere frainteso, proposto dalla rivista «Il Cantonetto» fondata da Mario Agliati. Sulle prime si poteva pensare a un’iniziativa volta a confutare l’essenza bubbonica del quartiere luganese, raso al suolo nel 1939, e a recuperarne un’immagine fischiettante. Ma bastava dare un’occhiata al programma del convegno per rendersi conto che così non era. Del resto, spiegava il promotore della giornata Carlo Agliati «si tratta di guardare a quella vicenda non con l’occhio della nostalgia, ma come occasione di approfondimento per guadagnare in saggezza: quella che dovrebbe governare le scelte odierne nella gestione di un territorio fragile e dei suoi beni culturali, oggi non diversamente di allora esposti alla logica del profitto»[2].

Frutto maturo di quel pomeriggio di studio è il bel volume dallo stesso titolo, pubblicato dalle Edizioni del Cantonetto nel 2016[3].

Nella sua introduzione – che prende le mosse dalla poesia Risanamento di Giovanni Raboni («Di tutto questo/ non c’è più niente»...) – il curatore Carlo Agliati osserva che la distruzione del Sassello «ha assunto un significato particolare per l’ampiezza e la crudezza dell’intervento, fino ad assumere, oggi, un contorno quasi mitizzato» ed «è emblematica della trasformazione non solo urbana, ma anche sociale ed economica che ha attraversato Lugano dal primo Novecento». È un po’ la traccia del libro che, pur nella diversità dei contributi e con qualche ridondanza (quasi inevitabile in una miscellanea che ruota intorno allo stesso oggetto), si presenta come opera coerente, capace, come da programma, di andare oltre il singolo caso di studio, adeguatamente sviscerato (come richiede cotanto sventramento), e di suscitare interrogativi che investono il presente.

Il primo contributo, di Antonio Gili, introduce il lettore nelle vie della vecchia Lugano e ricorda parecchi altri episodi di «scomparse e sostituzioni», parlando di «una città ‘picconata’». È un aspetto, questo, su cui insisteva spesso Tita Carloni, quando ripercorreva la storia della città: «Lugano è forse il campione svizzero delle demolizioni del proprio tessuto vitale. La città ha continuato a demolire e ricostruire in se stessa, con esiti spesso negativi nel piano sociale e nel piano architettonico e urbanistico», così presentava una sua serata al centro sociale Il Molino nell’ottobre 2004. O ancora, l’anno dopo, a una conferenza organizzata dai verdi locali: «ogni storia urbana è storia di demolizioni e ricostruzioni, ma sembra che Lugano abbia avuto, e continui ad avere, un gusto particolare per l’auto-distruzione». Carloni sottolineava l’assurdità urbanistica di via Motta («a mio parere una delle strade più sbagliate, per l’impianto topografico e per i collegamenti con il tessuto urbano»), che è il lascito principale dello sventramento del Sassello, insieme all’attuale piazzetta San Carlo e a quanto la circonda, realizzazione parziale delle «prospettive un po’ funeree del Bossi, che proponevano piazze littorie in formato ridotto e lucide superfici in travertino romano, che ebbero allora e negli anni successivi un certo successo»[4].

Nel secondo contributo Damiano Robbiani offre utili informazioni sul quartiere, come la proprietà dei fondi a metà Ottocento, l’origine degli abitanti intorno al 1900 (al suo apice demografico, con quasi la metà di italiani, il doppio che nella contigua Via Nassa), le attività dei sassellesi (in parte già ricordate qui nella citazione iniziale), svolte prevalentemente fuori quartiere. Robbiani passa poi in rassegna più in dettaglio, strada per strada, l’avvicendarsi di proprietari e inquilini in alcune case. Molte notizie, per il periodo 1920-1933, sono tratte dagli schedari comunali degli indirizzi, i cui compilatori «oltre a indicare il mestiere di ogni inquilino, segnalarono a margine delle cartelle implicazioni con attività giudicate immorali». Un po’ ingenuamente Robbiani si affida a queste osservazioni a margine per concludere che il Sassello «non può essere ridotto a un ricettacolo di crimine e piacere: le segnalazioni dei funzionari cittadini, anche se lacunose, restavano l’eccezione (sei casi in poco più di duecento schede)». Non che si voglia affermare a tutti i costi il contrario, però incrociando quelle segnalazioni – lacunose ma pur eloquenti – con altre fonti, di natura sanitaria o poliziesca, il quadro appare più fosco. A correggere il tiro ci pensa Rosario Talarico, nel terzo contributo dedicato a igiene e sanità. Basta leggere la situazione che si presenta nel 1927 in via Tassino 1 e 2, dove «convivono Cittadino C., con la moglie Cesira, nata S. e denunciata quale prostituta e luetica (luetico è pure il marito); Emilio B., barcaiolo, marito di Pierina C, nota meretrice, da cui poi divorzierà; Maria D., casalinga, prostituta; Enrico P., contadino, la cui moglie Ida è certo esercita la prostituzione; Giulio S., bracciante, la cui figlia Angelina si prostituisce ed è moglie di Mario G., barcaiolo, luetico al terzo stadio nel 1929». Talarico si appoggia, qui e a più riprese, agli studi sulla prostituzione a Lugano di Luigi G. Herz (il già citato Verso Babilonia e il precedente Venere in provincia[5])Quindi sì, barcaioli, braccianti, fattorini, le cui mogli e figlie si vedevano però talvolta costrette, in questi anni di crisi, a esercitare almeno occasionalmente la prostituzione. Il fenomeno non si limita alla nota osteria-bordello del Pa’ Cecch, ricordata anche da Robbiani, o alle annotazioni a margine dei funzionari comunali. Se alla vigilia della distruzione il quartiere non è più il luogo quasi esclusivo del meretricio – praticato a fine Ottocento generalmente da prostitute provenienti da fuori Cantone e tra le due guerre più diffuso e sfuggente – resta comunque il cuore di questa attività. Talarico inquadra la fine del Sassello nel processo di disciplinamento sociale avviato nel secolo precedente, in cui «l’intervento sanitario e preventivo si coniugava con la moralizzazione dei costumi». La preoccupazione ossessiva degli igienisti e delle autorità sanitarie per i generatori di malattie come il tifo, la tubercolosi, la sifilide, il rachitismo (l’acqua infetta, la polvere, l’aria viziata, l’umidità, il sovraffollamento, la promiscuità, l’alcolismo, la prostituzione) non poteva che aumentare la pressione sul quartiere che concentrava in sé tutte quelle nefaste condizioni. Risposte “strutturali” a questo quadro morbifero, che non si limita al solo Sassello, sono state per esempio la costruzione dell’acquedotto comunale (1893) e l’istituzione del servizio medico scolastico (1928). Solo più tardi, la costruzione di abitazioni “igieniche e a buon mercato”, sollecitata negli anni Venti dal medico delegato Giovanni Galli. «Nella mente di molti igienisti – scrive Talarico – la casa popolare non doveva solo rappresentare un ambiente salubre e igienico, un baluardo ai mali sanitari e alle patologie sociali, ma pure luogo privilegiato di elevazione morale, nido della famiglia e degli affetti parentali, dove la buona educazione dei bambini era coniugata con un sano sviluppo fisico  e spirituale» (come diceva un educatore nel 1932,  l’operaio preferirà la casa alla bettola, se «nella casa linda gli sorridono la sposa gentile, i figli robusti e paffuti; là si sente anch’egli in un piccolo paradiso, ove tutto lo attrae»).

E il tema della casa popolare manda dritti al contributo seguente, di Carlo Agliati, che segue l’incerto destino degli espulsi dal Sassello e l’avvio timido e tardivo di una politica di edilizia popolare. Se già Talarico aveva allargato l’orizzonte temporale e spaziale, il saggio del curatore entra pienamente nel “dopo Sassello” e investe altre zone della città. La questione delle “case operaie” è messa all’ordine del giorno a fine Ottocento dalla Società operaia liberale luganese, che nel 1903 lancia un’iniziativa popolare in tal senso insieme alla Camera del Lavoro. Si arriva così, nel 1906, alla realizzazione delle prime due case operaie (in viale Cassarate, distrutte nel 1988). Già in questi anni la questione si intreccia con lo sventramento del Sassello (di fatto già condannato dal piano regolatore del 1906; e ciò, come ricordano vari autori di questo volume, accelera il degrado del quartiere, visto che i proprietari sanno che non sarà loro riconosciuto, in caso di esproprio, il valore delle eventuali migliorie apportate alle abitazioni). Nel 1932, in vista dello smantellamento, viene avviata un’inchiesta sulle condizioni abitative a Lugano, ma senza decisioni in merito alla realizzazione di abitazioni popolari sostitutive. Così, al momento dello sfratto e della demolizione, nulla è pronto per «la tribù degli sfollati». La guerra e l’immediato dopoguerra vedono aggravarsi la crisi dell’alloggio, e però si distruggono altri nuclei abitati dalla plebe, a Besso e a Molino Nuovo, tanto che la situazione tende a diventare insostenibile. Nel 1943 il socialista Noello Ginella, con altri, rilancia il tema della carenza di alloggi popolari dignitosi (e questo mi porta ad aprire una parentesi sull’oggi, a ricordare l’iniziativa socialista del 2012 «Per abitazioni accessibili a tutti», generata dalla carenza di “alloggi a pigione moderata” – mentre case ritenute fatiscenti, o non adatte ai tempi, o poco redditizie, continuano a essere smantellate dall’ingordigia speculativa, magari per farne appartamenti, poi non sempre abitati, “di alto standing”, secondo una formula che sembra connaturata alla Lugano di questi decenni. Per finire la città nel 2015 ha formalmente raccolto l’appello a farsi promotrice di alloggi a pigione moderata, ma per ora senza passi tangibili. Sollecitazioni a procedere si sono avute nel frattempo da PS, Verdi e PPD. Situazioni analoghe che si ripresentano nel tempo, pur in un contesto assai diverso). Finalmente sorgono, nel 1948, le case popolari comunali di Carlo e Rino Tami alla Gerra, in posizione allora molto periferica, e quasi contemporaneamente quelle promosse dalla Curia a Molino Nuovo (le cosiddette “case del vescovo” in cui siamo cresciuti, con molti altri, io e Carlo Agliati). E ancora, per iniziativa privata, quelle di Via Marco da Carona, subito acquisite dalla cassa pensione del Comune. E così solo intorno alla metà del secolo, decisamente fuori tempo, si è data risposta concreta, ancorché parziale, all’estirpazione del bubbone-Sassello. 

Ai contributi di Talarico e Agliati, centrali non solo in virtù della loro posizione nella scaletta, fa seguito un saggio molto tecnico di Riccardo Varini, che affronta la procedura di espropriazione, esponendo i vari strumenti pianificatori elaborati fin lì dal legislatore e seguendo passo passo le operazioni di esproprio. Varini è l’unico a sfiorare il tema dei possibili interessi speculativi del progetto, segnalando in nota che «non sussisterebbero elementi per ravvisare fini di speculazione fondiaria». Per le sue dimensioni e la sua complessità, la vicenda del Sassello è destinata a influenzare il successivo diritto edilizio e contributivo e già si riflette nella nuova legge delle espropriazioni del 1940.

Il contributo di Riccardo Bergossi affronta dal punto di vista urbanistico e architettonico il concorso per il risanamento del quartiere, analizzando i quattro progetti finalisti e segnalandone le differenti culture architettoniche (nonché interessanti intrecci tra un paio di membri della giuria e i loro allievi concorrenti). Alcuni materiali dei vari progetti (planimetrie, prospettive, assonometrie) aiutano il lettore a seguire l’analisi di Bergossi, così come alcune fotografie degli elementi realizzati.

Dopo tanta acribia risulta un po’ impressionistico il contributo di Mario Frasa sulla toponomastica del Sassello (dove non manca qualche gustoso microtoponimo come Bürlagiò, la cui origine si può capire, mi sembra, sfogliando la sezione fotografica del libro). 

A chiudere, alcune pagine di Fabio Cani su una vicenda parallela, anche nel tempo: il risanamento del quartiere della Cortesella di Como. Questo contributo, insieme a quello pubblicato da Stefano della Torre sul «Cantonetto» dell’ottobre 2015, mostra come con questa pubblicazione si voglia anche andare, in varie forme, “oltre” il Sassello. 

Il libro non finisce qui, anzi. Ci sono ancora una ventina di pagine riprese da Attilio Rezzonico, La memoria del vecchio luganese, Edizioni del Cantonetto, 1980: una memoria un po’ nostalgica ma viva, ricca di umanità e di informazioni, illustrata dai disegni di Emilio Rissone (entrambi hanno conosciuto, in gioventù, il Sassello; si tratta presumibilmente dell’ultimo lavoro di Rissone, morto nel giugno del 2017). Queste pagine sono stampate su carta vistosamente diversa, per colore e consistenza, a segnare la cesura tra l’indagine storica e la testimonianza.

Infine un centinaio di pagine di fotografie (Sassello in immagine, una galleria fotografica, a cura di Damiano Robbiani con la collaborazione di Carlo Agliati). Non si tratta dell’inserto fotografico esornativo che caratterizza molte pubblicazioni di storia locale. Va detto che rilievi cartografici e immagini ben scelte già accompagnano i vari capitoli, ma questo che chiude il libro è un corpus documentario eccezionale – il quartiere ripreso da vari fotografi, poco prima o durante la distruzione – che porta visivamente il lettore dentro un quartiere fin qui affidato prevalentemente alla parola scritta. Una mappa, elaborata sulla base del piano regolatore del 1929, indica il punto di ripresa di ogni immagine e aiuta a ordinare quei volumi, quegli scorci, quei muri, quegli antri, quegli interni, quei passaggi angusti. Sono pagine da guardare con calma, non da descrivere. È chiaro che puzze, umidità, risate, grida e bestemmie bisogna immaginarle (un po’ aiuta Attilio Rezzonico). E anche le persone (lì rarissime, perché sono fotografie per lo più scattate dopo la loro espulsione).

Intermezzo: «Io ricordo l’abbattimento di Sassello, che era stato luogo affascinante e nello stesso tempo intimorente dei miei giochi di ragazzo di campagna trapiantato per qualche anno in città. Ricordo le catene avvinghiate attorno ai mozziconi di muro o a intere casupole e legate a modesti autocarri, che avanzando di botto facevano crollare in un gran polverone i miseri resti della Lugano più popolare e plebea. Cose da far accapponare la pelle agli odierni difensori dei centri storici di mezza Europa. Tanto più che le turbolente tribù dei Limonta, dei Bonaiti, degli Schmitt, dei Cameroni, furono disperse chi a Pambio, chi a Lamone, chi a casa del diavolo, in nome della superiore igiene del piccone» (Tita Carloni, 1983).

Alla fine degli anni Trenta lo sventramento del Sassello, tranne che dai suoi abitanti, era ritenuto cosa ottima e necessaria. I dubbi sul risultato urbanistico di quell’operazione, e più tardi su quello sociale, sono emersi pian piano nei decenni successivi fino a diventare quasi un’ovvietà, tanto che pure la recente applicazione per smartphone LugaNow («L’app per viaggiare nel tempo») spiega a turisti e curiosi che alla base della distruzione del Sassello c’è stata «una manovra politica poco accorta e priva di coscienza storica nei confronti del quartiere più caratteristico di Lugano». Come ci ricorda Riccardo Bergossi nel suo contributo, lo stesso Bruno Bossi, vincitore del concorso e poi capotecnico del Comune, «molti anni dopo espresse pubblicamente un rammarico per l’esito dell’intervento». Anche un sindaco di Lugano, Ferruccio Pelli, pure citato da Bergossi in epigrafe, disse intorno al 1980 che «se oggi ci fosse ancora stato il vecchio Sassello l’avremmo messo a posto senza distruggerne le viuzze» (ma il problema non si riduce alla tipicità, turisticamente spendibile, delle viuzze).

Gli interventi risanatori o sostitutivi in questi decenni non sembrano però aver colto la lezione. La politica di espulsione degli abitanti dal centro cittadino, soprattutto di quelli “meno abbienti”, è stata una costante, se non come progetto dichiarato, come “danno collaterale” della speculazione immobiliare e della terziarizzazione selvaggia. Uno degli ultimi interventi nel nucleo, la discussa ristrutturazione di un edificio storico tutelato (e “popolare”) in via Peri, ha visto come protagonista addirittura il sindaco-architetto. Solo gli “eventi” – diventati ormai il fulcro della politica turistica (se così la vogliamo chiamare) della città – animano temporaneamente, insieme a effimeri gazebo e aperitivi trendy, un centro altrimenti devitalizzato. Nuovi cantieri, grandi e piccoli, sono all’orizzonte, in una Lugano ampliatasi con le aggregazioni, mentre non ha perso tutta la sua attualità il giudizio espresso dall’architetto Paolo Fumagalli nel lontano 1976: «l’improvvisazione e la mancanza di un’‘idea di piano’, di un progetto globale, ha tolto alla città il suo ordine antico senza darne uno nuovo»[6].

«Guadagnare in saggezza», si augurava Carlo Agliati. Sarebbe ora. Se i libri di storia servissero davvero a orientare le scelte politiche, questo volume potrebbe aiutare...

(Di solito non si mette la notizia per una recensione, ma qui, considerata la coincidenza, sarebbe peccato non farlo: testo ultimato a Sassello, provincia di Savona, il 24 settembre)

 

[1] L. G. Herz, Verso Babilonia. Tre saggi su prostituzione, ballo pubblico, associazionismo cattolico femminile tra le due guerre, Alice, Comano 1993, pp. 35-36.

[2] «Giornale del Popolo», 25 aprile 2015, p. 11.

[3] AA. VV., Sassello, il quartiere frainteso. Storia di un rione scomparso della vecchia Lugano, a cura di Carlo Agliati, Edizioni del Cantonetto, Lugano 2016, 266 pp. (con una galleria fotografica di 100 pp.). Un “primo assaggio” l’aveva offerto «Il Cantonetto» dell’ottobre 2015, che ospitava tre interventi del convegno (di A. Gili, D. Robbiani e S. della Torre).

[4] Le due citazioni sono tratte da T. Carloni, Tra conservazione e innovazione. Appunti sull’architettura nel Canton Ticino dal 1930 al 1980, in «Ingénieurs et architectes suisses», n. 10, maggio 1983, p. 164; articolo ripreso da 50 anni di architettura in Ticino 1930-1980, a cura di Peter Disch, «Quaderno della rivista tecnica della Svizzera italiana», Lugano 1983. Gili cita invece, a proposito delle ricostruzioni su via Nassa, Mario Agliati che parla di «malgusto tra di littorio e di zurighese»: questa consonanza mi spinge a segnalare una bella pagina di Tita Carloni in cui riflette sul desencuentro tra gli architetti moderni e il fondatore del «Cantonetto» (T. Carloni, La battaglia per il “Venezia” e il difficile rapporto di Mario Agliati con la modernità, «Il Cantonetto», n. 3-4-5, giugno 2012, p. 134).

[5] L. G. Herz, Venere in provincia. Uno studio su prostituzione e società. Lugano 1800-1914, Alice, Comano 1987.

[6] P. Fumagalli, Le vicende di un progetto quale storia della città. Per una storia del Palazzo dei Congressi di Lugano, «Rivista tecnica della Svizzera italiana», n. 12, 1976, p. 22. Certo assistiamo oggi a pianificazioni più organiche di parti di città, ma ancora manca un convincente «progetto globale». Un nuovo strumento pianificatorio, prima tappa del futuro piano regolatore unitario, dovrebbe essere discusso nel corso dell’attuale legislatura.

 

(Danilo Baratti, Guardare al Sassello. Rapporto dalla città picconata, «Archivio storico ticinese», n. 162, dicembre 2017, pp. 154-160)

 

malaedilizia, recensione, 2017, AST, storiografia, Cantonetto

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