Zolle. Le fatiche della Controriforma II (2001)
Il conflitto tra le norme tridentine e la religione popolare. Un'altra serie di "lezioni" radiofoniche
«Zolle» era una trasmissione divulgativa di Rete Due, legata alla Svizzera italiana, che presentava un tema diverso ogni settimana, distribuito su cinque brevi interventi di 5-6 minuti. Questa serie è andata in onda a cavallo tra ottobre e novembre del 2001.
Le fatiche della Controriforma. Seconda serie
A metà del Cinquecento il Concilio di Trento ha stabilito precise regole di comportamento da osservarsi nelle aree cattoliche. Come sono state accolte nei baliaggi sudalpini? Come si comportavano i fedeli in chiesa, alla dottrina cristiana, nelle processioni? Ce ne parlerà lo storico Danilo Baratti, continuando un discorso avviato in una precedente serie di zolle.
1. Lunedì. La Pasqua, l’osteria
(Giacomo Carissimi: Peccavimus, Domine; resta sullo sfondo)
Dopo il Concilio di Trento, nelle aree cattoliche si intensificano i controlli sulle pratiche dei fedeli. Uno strumento essenziale di questo controllo è la visita pastorale, che il vescovo è tenuto a fare con regolarità in tutte le parrocchie della sua diocesi. Dai documenti legati a queste visite periodiche dei vescovi possiamo avere interessanti indicazioni sui comportamenti religiosi.
Sappiamo così che fin dalla fine del Cinquecento la partecipazione alla comunione pasquale è generale, quasi unanime. I casi di trasgressione sono rarissimi e riguardano figure marginali. Rarissimi anche i casi di esclusione, che possono essere decisi dal clero per chi persevera in comportamenti condannati dalla Chiesa o chi non paga le decime.
Tutto bene dunque? Adesione spontanea e totale alle norme decise a Trento? Profonda e disciplinata devozione? Attaccamento incondizionato alla parrocchia? Qualche dubbio è lecito. Innanzitutto, per rimanere alla comunione pasquale, bisogna tener conto che gli inconfessi sono puniti anche dall'autorità civile. Dunque meglio evitare grane, tipo multe e punizioni corporali. I dubbi maggiori riguardano però il numero di persone che per varie ragioni, con l'applicazione rigorosa dell'interdetto, dovrebbero essere escluse dalla Pasqua: per ignoranza nelle «cose della fede», per esempio, più volte e in più luoghi denunciata, o per ragioni più gravi. Evidentemente i curati erano di manica larga. E facevano bene, perché le coseguenze sociali dell'interdetto non erano di poco conto.
Per spiegare la partecipazione quasi unanime alla Pasqua bisogna poi tener conto del controllo sistematico a cui erano sottoposti i parrocchiani tramite la distribuzione delle cedole o biglietti pasquali. Questi biglietti, distribuiti alla Pasqua e poi ritirati per la verifica, permettevano di controllare anche coloro che in quel periodo non si trovavano in parrocchia, in particolare gli emigranti che passavano parte dell'anno fuori paese, magari in regioni protestanti. La pratica, già in uso a fine Cinquecento, si è generalizzata alla fine del Seicento. Una schedatura efficacissima. La pressione istituzionale, attraverso la minaccia dell'Interdetto, l’intervento del braccio secolare e l’adozione delle cedole, ha certo contribuito a determinare l'adesione in massa alla Pasqua. Di fatto c'era poco da scegliere.
Altri indizi ci mostrano una situazione meno monolitica. Per esempio la partecipazione alla messa domenicale. Alla fine del Seicento il vescovo di Como registra casi di inosservanza in un terzo circa delle parrocchie dei baliaggi. A Cademario, per fare un esempio, si constata uno «strepazzo di feste tanto di precetto Divino quanto ecclesiastico». Molti non santificano la festa perché legati ai ritmi della natura: alcuni raccolti, alcuni lavori non possono essere rimandati. Così a Bironico le feste si trasgrediscono nella stagione delle castagne: soprattutto negli avvallamenti, si spiega, «dette castagne possono facilmente andar a male». Chi vive al margine di boschi umidi, com'è il mio caso, ne sa qualcosa.
Tra i disertori delle funzioni per motivi di lavoro spiccano i mugnai, i pescatori, i carradori, i barcaioli, i cavallanti.
(Carl Orff, Carmina Burana, «in taberna quando sumus...)
Vi sono poi gli amici del vino. Parroci e vescovi denunciano continuamente la concorrenza dell'osteria alla messa. Gabriel Le Bras, il fondatore della sociologia religiosa, parla dell’oste come dell'«anti-parroco del villaggio» e ci ricorda che taverna e tabernacolo hanno la stessa etimologia.
Già alla fine del Cinquecento il vescovo di Como si scaglia contro «gli hosti, li sonatori & le altre persone poco curiose dell’honor di Dio» che disturbano le funzioni religiose. Su questo interviene spesso anche l'autorità civile. Per esempio il lanfogto di Mendrisio nel 1606:
«molti pocco zelanti dell’honore d'Iddio si mettono alle feste in tempo dei divini officij nelle hosterie, piazze et luoghi publici a giocare alle carte, et altri giochi non senza scandalo del popolo, et altri non solo nelli giorni di lavoro, ma anche alle feste ancora in detto tempo de divini officij se ne stanno avanti le chiese burlando et scherzando».
Il balivo minaccia pene pecuniarie. Dai pulpiti si susseguono gli avvertimenti, ma il richiamo del vino è forte. Nonostante gli ammonimenti ecclesiastici e civili, due secoli dopo il problema non è affatto scomparso. Cito due esempi, per concludere: Novaggio, 1769: i parrocchiani sono «troppo a giochi, bagordi e bettole ne tempi dei divini uffizi». Castelrotto, stesso anno: «si tengono aperte le osterie in tempo delle sacre funzioni, e succedono anche delle ubriachezze».
(Carl Orff, Carmina Burana, «in taberna quando sumus...)
2. Martedì. La messa domenicale
(Arvo Pärt: Fratres; resta sullo sfondo)
Ieri abbiamo visto che nei secoli dell'antico regime l'obbligo della comunione pasquale, anche per gli attenti controlli, è osservato da tutti, ma che la partecipazione alla messa domenicale non è così regolare: per necessità lavorative o per il richiamo dell'osteria, le defezioni sono parecchie.
Ma anche chi partecipa alla messa pone problemi. Fino al Settecento è documentata l’abitudine di seguire la messa dall’esterno della chiesa, spesso chiacchierando, benché questo atteggiamento sia ripetutamente condannato fin dal Cinquecento. Ecco quanto dice Carlo Borromeo ai parroci di Capriasca:
«Li curati non lascino star il popolo fuor della chiesa nè su la porta o Cimitero di essa ad ascoltar la messa et mentre si celebra gli officij, in conformità anche del concilio nostro provinciale, ammonendoli anche a star nelle chiese con quella riverenza che dèveno senza ragionar tra loro ma solo stiano attenti alli divini Offici et orazioni».
Senza ragionar tra loro, cioè senza chiacchierare. Proprio quel che non succede ad Agno, dove alla fine del Cinquecento gli uomini se ne stanno, cito,la maggior parte (...) fuori della porta della chiesa, nel cimitero, ad udire messa le feste comandate, per potere meglio raggionare e forte e piano come meglio li piace». O a Melide, dove nel 1670 parecchi «stanno a sentir messa fuori della Chiesa, et esagerano l'irriverenza d’essa con risate, poco silenzio, strilli di bambini, con gran disturbo de' Divini Offici».
Problemi nel seguire la messa si manifestano anche all’interno della chiesa. In generale non vengono rispettate le norme che impongono una separazione netta tra spazio profano e spazio sacro, norme che escludono i laici dal coro, dal presbiterio, dalla sagrestia. I fedeli sono troppo disinvolti nell'usare lo spazio sacro . L’hanno sempre fatto. Ecco quanto ordina il vescovo di Como ad Astano, nel 1684:
«che nessun secolare non abile ad aiutare a cantare in tempo de' divini offici entri in Presbiterio. Lo stesso s’intende che in detto tempo e massime quando si sermoneggia dal Parroco, o altri, nessuno stia nella cappella del SS. Crocifisso, né si mettano i cappelli sull’altare. Ne si trattenghi alcuno sul sagrato al tempo della Dottrina Christiana a confabulare».
Sempre in quegli anni a Sessa «molti nel venire alla Chiesa ripongono l’archibugio vicino alla porta, dimostrandosi «presontuosi, e trasgressori, et irriverenti». A Someo si segnala invece «l’abuso di metter sotto il tetto del portico (della chiesa) paglia, fieno e canapa a staggionare, con irriverenza della chiesa suddetta».
Un'altra cosa preoccupa: il sesso. Carlo Borromeo si preoccupa di chi si mette «inconvenientemente in faccia alle donne» e «fa atti, sguardi, parole ò segni dishonesti verso alcuna Donna, ancorché impudica». Lo stesso Borromeo, per evitare sguardi disonesti, escogita la costruzione di un muro di tavole tra uomini e donne, ma ancora nel secondo Seicento le chiese sono definite dall’arcivescovo Litta «theatri di disonestà».
I vari comportamenti denunciati non ci portano certo a concludere che la gente del Cinque, Sei e Settecento fosse irreligiosa. Tutt'altro. È però evidente che il fedele di questi secoli concepisce la messa in modo diverso. Benché sia una cerimonia collettiva, la messa rimane ancora per molto tempo una somma di preghiere individuali piuttosto che l’espressione di una grande devozione comunitaria: conta la presenza, non tanto il modo in cui si partecipa.
Quanto ai disordini all'esterno della chiesa, non bisogna dimenticare che nel mondo rurale il giorno della festa è anche il momento dedicato al divertimento, al gioco, alla stipulazione dei contratti, agli affari. Tutte pratiche sociali che si svolgono anche sul sagrato e che la chiesa controriformistica vuole espellere dallo spazo sacro.
3. Mercoledì. La dottrina cristiana
(Magnificat)
Proprio in questi giorni sto trattando, con i miei studenti di prima commercio, l'origine del cristianesimo. Sono tutti battezzati ma a molti di loro termini come «vangelo» o «nuovo testamento» sono del tutto estranei. Addrittura c'è chi non è minimamente in chiaro sulla figura di Cristo. Anche un docente non credente si preoccupa per questo indizio di un più generale analfabetismo culturale, di una mancanza di strumenti utili per leggere il mondo. Ma non di questo voglio parlare.
Ho aperto raccontando dei miei studenti per tornare all'età della Controriforma, quando bambini e ragazzi, ma anche adulti, erano obbligati a partecipare settimanalmente alla dottrina cristiana, cioè ai corsi di catechismo tenuti di solito dopo la messa. Le prime Scuole della Dottrina cristiana erano sorte nella diocesi di Milano. Nella città-chiesa di Carlo Borromeo non era facile sfuggire alla pia istruzione: la partecipazione massiccia era ottenuta anche coll'impiego di efficaci misure coercitive (reclutamento forzato a suon di bastonate da parte dei «pescatori» e delle «pescatrici», retate nelle osterie, intervento del braccio secolare).
Dopo il Concilio di Trento le scuole della Dottrina cristiana si generalizzano e diventano, con il catechismo tridentino, i veicoli ideali dell'istruzione nelle cose della fede. Tuttavia le visite dei vescovi rivelano un funzionamento imperfetto del sistema. Nel 1591 a Medeglia i parrocchiani non vanno alla dottrina perché, dice il parroco, «per esser tutti poveri vano dietro alle bestie», a Sigirino non si fa vedere nessuno, a Torricella la dottrina si fa solo ogni tanto. Nelle tre Valli, appartenenti alla diocesi che fu di Carlo Borromeo, le cose non vanno molto meglio: parroci negligenti, carenza di volontari, partecipazione scarsa...
Ancora nel 1632, in varie parrocchie dei baliaggi risulta che il popolo è «mal instrutto nella Dottrina Christiana». Ecco quanto scrive un visitatore comasco:
«E perché habbiamo molto bisogno d’insegnare la dottrina christiana a questo popolo, il Prevosto diligentemente n’attendi, e vedendo negligenza nel popolo d’impararle, per l’avenire non admetta alcun huomo, o donna, al sacramento del matrimonio, ne per compadre o comadre al battesimo, ne niuno al sacramento della penitenza, se non sapran le cose necessarie alla salute...»
Nella seconda metà del Seicento, la Confraternita della Dottrina Cristiana è presente in quasi tutte le parrocchie, ma i vescovi trovano ancora l'insegnamento «negletto e trascurato in moltissimi luoghi». Certo le visite dovevano essere particolarmente severe, se diamo credito alle istruzioni di visita date da un vescovo di Como a metà Settecento:
«[Il Visitatore] A principio della Dottrina Christiana dirà il Pater noster, l’Ave Maria, ed il Credo in volgare ad alta voce, e con pausa, acciò possa il Popolo rispondere. Annoterà dipoi tutti gli Uffiziali, e farà la Visita della Dottrina Cristiana secondo il Foglio, interrogando tutti specialmente sopra le Virtù Teologali, li Misteri della Santa Fede, e sopra le quattro Parti principali della Dottrina Cristiana, e sentita la Disputa, dopo di essa si farà il Discorso. Finito il Discorso si compirà la Dottrina Cristiana con recitare gli Atti delle Virtù Teologali ad alta voce, ed appostatamente, acciò il Popolo possa rispondere...»
Ma ancora alla fine del Settecento incontriamo situazioni che non confortano certo l'autorità religiosa. Per esempio a Breno pare che la scuola della dottrina cristiana «fù eretta, non mai pratticata, perché la maggior parte del popolo non è assiduo alla parrocchia (...) non vi sono ne classi, ne maestri, ne catalogo degl'ascritti». Per male che andassero le cose, possiamo però star certi che su questioni religiose i paesani riluttanti di Breno fossero assai più ferrati dei miei studenti.
4. Giovedì. I riti della morte
(Paul Giger, da Chartres)
2 novembre, giorno dei morti.
Anche intorno ai riti della morte si apre, con la Controriforma, un contrasto tra norma e forme tradizionali.
Il documento più interessante su questo tema ci viene da una relazione del 1627 redatta dai missionari gesuiti in Valmaggia:
«Quando portano il morto fuori di casa, accendono un poco di paglia, e gridano per le strade «dove va il corpo, vada anche lo spirito». Fanno un certo trentesimo, per l’anima de defonti, e vanno al luogo del defonto, gionti pigliano la testa in mano, e cominciano a piangere dirottamente, con tanti gridi che è cosa da ridere. Tengono tutti i morti esposti in cataste, e le teste in certe cassette, e ben spesso vanno le donne, le pigliano, le lavano, e poi si mettono a gridare che paiono pazze».
La relazione dice che questi «abusi o superstizioni, si sono levati», che i parrocchiani «mandarono subito a levar le dette teste e ossa de morti, e ci pregarono che parlassimo anche alle donne, nelle quali pareva essere maggior difficoltà». Però qualche indizio successivo ci fa intuire che nonostante lo sforzo missionario l'abbandono dei riti antichi avviene solo lentamente. Nel 1741 a Menzonio, oltre un secolo dopo quella missione, si lamenta «l'abuso delli schiamazzi, e del pianto, in occasione delli funerali, la qual cosa è contro la dovuta rasegnazione, che dobbiamo avere al volere divino». Nello stesso anno a Sornico si ordina di «ritirare li teschi dalle crate dell'ossario esposti alle ingiurie dei passaggieri», ma l'ingiunzione dev'essere ripetuta tal quale vent'anni dopo:
«Fu già providamente ordinato nell’ultima visita dell’anno 1741 che si dovessero ritirare li teschi dalle grate dell’ossario, esposti alle ingiurie de passaggeri, ed avendo tuttora trovata ineseguita la decretata determinazione, anziché ammucchiare le ossa de defonti sconciamente, ordiniamo che la maggior parte di esse si sotterrino nel Cimitero, e che le altre si dispongano con buon ordine in cassette all’intorno ponendovi qualche immagine del crocifisso in mezzo, cosicché ne venga eccitata la pietà dei fedeli a sufragare con pie orazioni le anime dei trapassati».
Alla fine del Seicento il vescovo di Como chiede ai parroci: «Se nell’esequie si osservi puntualmente il rituale. Che costume vi sij incontrario. Quali siano gli abusi in simili occasioni». Non ottiene risposte di particolare interesse. La situazione sembra ormai normalizzata.
Rimane tuttavia l'impressione, almeno per la Valmaggia, che sotto le forme della pietà barocca continuino a sopravvivere concezioni poco ortodosse. Che dietro le raffigurazioni macabre, i teschi, le allegorie della morte che spuntano in ogni angolo della valle, nei numerosi ossari, non continuerà a esprimersi la stessa visione della morte che alimentava i riti del primo Seicento. Cosa suscitano quelle ossa, reali o dipinte, nei valmaggesi di fine Seicento? Non lo sapremo mai, perché i parroci – ne riparlerò domani – rispondevano ai questionari in modo formale, senza scavare troppo nella mentalità religiosa delle loro pecorelle.
5. Venerdì. Le larve e il silenzio
(Paul Giger, Chartres)
Ieri, accennando a certi riti legati alla morte, ci siamo resi conto concretamente di come le informazioni raccolte durante le visite pastorali possano avere un valore di conoscenza etnografica. I documenti delle visite pastorali sono stati definiti da uno storico francese «archivi della repressione». Effettivamente le notizie sui comportamenti e le credenze della gente sono raccolte nel quadro di un progetto di cancellazione di tratti culturali tradizionali, o folklorici. Molte pratiche sono descritte – come abusi o superstizioni – proprio nel momento della loro estirpazione o della loro sostituzione con i riti del cattolicesimo posttridentino. L'intento repressivo di qusta conoscenza è ben evidente in questo invito rivolto al clero Bellinzonese alla fine del Seicento
«Non si deve permettere, anzi si deve investighare per li signori curati li segni che fanno tali parochiani, o parochiane, che hanno più del superstizioso che altro, cioè per segnar il tempo nelli temporali, segnar li ochi, e diversi altri mali, che hanno più del diabolicho che del spirituale».
E l'invito a «investighare» i segni è raccolto. Il clero locale, collaborando alla grande opera di disciplinamento messa in moto dalla Controriforma, ci racconta come dalle parti di Bellinzona si scacciavano le gatte – cioè i bruchi, le larve – dagli orti:
«Per scacciare le gatte dalli cavoli, ò verze come diciamo noi, fanno in questo modo: particolarmente le donne si congregano alcune insieme e constituiscono il Giudice, con li altri officiali, e li sbirri acciò ne pigliano, e ne ligano alcune; e poi con precetti penali comandano a partirsi da detti cavoli con accompagnarle via per qualche passi. Così con questo fare il più delle volte si partino».
Può sembrare ben strano, oggi, che ci si comporti in questo modo con i bruchi, mettendo in piedi una sorta di potere giudiziario e trattandoli come esseri in grado di intendere e volere. È un modo di relazionarsi agli animali, anche ai più infimi, documentato più volte tra Medioevo ed Età moderna. Si arriva persino a celebrare veri e propri processi contro insetti e altri animali dannosi, con tanto di accusa e difesa. In quanto creature di Dio, anche larve e insetti hanno diritti da far valere.
(Paul Giger, da Chartres)
Il caso dei bruchi è interessante e ci mostra quanto potrebbero essere etnograficamente ricchi questi «archivi della repressione». Ma purtroppo non lo sono quanto vorremmo. Inanzitutto lo scopo principale di questi controlli regolari sulle parrocchie non è tanto quello di descrivere le usanze popolari. Interessa soprattutto documentare altri aspetti, prevalentemente amministrativi (entrate della chiesa e del clero, numero degli altari e delle cappelle, delle confraternite, eccetera). E poi gli informatori del vescovo, i curati, non pensano — comprensibilmente — agli studiosi del ventunesimo secolo. A domande di routine rispondono più con lo spirito del funzionario devoto che con quello dell'etnografo. E ancora non bisogna dimenticare che questi parroci, benché formati nei seminari e portatori di un'altra visione del mondo, provengono quasi sempre dal territorio in cui si trovano a operare, e a differenza di vescovi e inquisitori vedono in molte pratiche folkloriche qualcosa di famigliare, non preoccupante.
Così su molte cose che avremmo voluto sapere ci resta solo il silenzio.
(Paul Giger, da Chartres)
Testi di riferimento:
Danilo Baratti, Lo sguardo del vescovo. Visitatori e popolo in una pieve svizzera della diocesi di Como: Agno, XVI-XIX sec., Edizioni Alice, Comano 1989.
Danilo Baratti, Clero secolare e società nei secoli XVII e XVIII, in Storia della Svizzera italiana dal Cinquecento al Settecento, a cura di Raffaello Ceschi, Stato del Cantone Ticino, Bellinzona 2000, pp. 445-470.
Per scaricare il pdf dell'articolo: Scarica Controriforma 2
2001, radio, zolle, AncienRégime, vitareligiosa
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