Zolle. De Amicis sull'Oceano (2002)
La traversata atlantica degli emigranti attraverso le voci di Edmondo De Amicis, di Mosè Bertoni e di altri viaggiatori
«Zolle» era una trasmissione divulgativa di Rete Due, legata alla Svizzera italiana, che presentava un tema diverso ogni settimana, distribuito su cinque brevi interventi di 5-6 minuti. Questa serie è andata in onda nel maggio 2002. La si può ascoltare qui: https://lanostrastoria.ch/entries/MWBnvMjwX4g
Zolle. De Amicis sull'Oceano: un viaggio con gli emigranti
Nel 1884 Edmondo De Amicis, il celebre autore di Cuore, si imbarca su una nave che lo porta in Sudamerica. Lo scrittore italiano viaggia in prima classe, ma è molto attento alla terza, in cui si ammassano circa 1600 emigranti, tra cui alcuni ticinesi.
Il romanzo che De Amicis ricava da questa esperienza, intitolato Sull'Oceano, si intreccia in queste «Zolle» con le testimonianze di quegli emigranti, e di molti altri che hanno attraversato l'Atlantico alla ricerca di una nuova vita.
Lunedì. Il viaggio
(Contempo trio: «Sorrento»)
«Partimmo l’11 Marzo, alle 2 ant. L’imbarco fu penoso, a causa del disordine completo che regna a bordo del Nord-America. Il vapore, come barco, è buonissimo, rapido e ben costrutto; in mano ai Francesi sarebbe una meraviglia; in mano agl’Italiani diventa una torre di Babele, per non dire un Arca di Noè, vista la varietà d’animali che vi erano a bordo. Nessun ordine; ufficiali che non si occupano di niente e che in terza non si vedono mai; le donne alloggiate nei posti più cattivi; la nettezza poco; il vapore è in mano ai marinai, rozzi e villani quanto si può immaginare, gente sozza e schifosa per lo più, in mezzo ai quali anche i pochi buoni non possono far niente».
Così l'emigrante bleniese Mosè Bertoni sintetizza, in una lettera del 2 aprile del 1884, il viaggio transoceanico della sua famiglia e di alcuni contadini biaschesi che lo accompagnavano. Poche righe, per comunicare l'essenziale ai parenti rimasti in Ticino. Sulla stessa nave viaggia lo scrittore Edmondo De Amicis, che racconta la traversata nel fortunato romanzo Sull'Oceano, pubblicato nel 1888. Questa particolare coincidenza ci permette di confrontare le annotazioni dei Bertoni con quelle dello scrittore italiano e di approfondire alcuni aspetti della traversata. Ho detto «dei Bertoni», perché su questo viaggio abbiamo anche una testimonianza di Giuseppina, madre di Mosè. Non sono invece conservate, e forse non sono neppure state scritte, lettere degli accompagnatori biaschesi dei Bertoni. Cominciamo dalla laconica osservazione di Mosè: «l'imbarco fu penoso». De Amicis, che viaggia in prima classe, l'imbarco non l'ha subíto, ma l'ha osservato con attenzione e ce ne dà una descrizione accurata e intensa:
«Quando arrivai, verso sera, l’imbarco degli emigranti era già cominciato da un’ora, e il Galileo, congiunto alla calata da un piccolo ponte mobile, continuava a insaccar miseria: una processione interminabile di gente che usciva a gruppi dall’edifizio dirimpetto, dove un delegato della Questura esaminava i passaporti. La maggior parte, avendo passato una o due notti all’aria aperta, accucciati come cani per le strade di Genova, erano stanchi e pieni di sonno. Operai, contadini, donne con bambini alla mammella, ragazzetti che avevano ancora attaccata al petto la piastrina di latta dell’asilo infantile passavano, portando quasi tutti una seggiola pieghevole sotto il braccio, sacche e valigie d’ogni forma alla mano o sul capo, bracciate di materasse e di coperte, e il biglietto col numero della cuccetta stretto fra le labbra. Delle povere donne che avevano un bambino da ciascuna mano, reggevano i loro grossi fagotti coi denti; delle vecchie contadine in zoccoli, alzando la gonnella per non inciampare nelle traversine del ponte, mostravano le gambe nude e stecchite; molti erano scalzi, e portavan le scarpe appese al collo [...]. Poi, improvvisamente, la processione umana era interrotta, e veniva avanti sotto una tempesta di legnate e di bestemmie un branco di bovi e di montoni, i quali, arrivati a bordo, sviandosi di qua o di là, e spaventandosi, confondevano i muggiti e i belati coi nitriti dei cavalli di prua, con le grida dei marinai e dei facchini, con lo strepito assordante della grù a vapore, che sollevava per aria mucchi di bauli e di casse. Dopo di che la sfilata degli emigranti ricominciava: visi e vestiti d’ogni parte d’Italia, robusti lavoratori dagli occhi tristi, vecchi cenciosi e sporchi, donne gravide, ragazze allegre, giovanotti brilli, villani in maniche di camicia, e ragazzi dietro ragazzi, che, messo appena il piede in coperta in mezzo a quella confusione di passeggieri, di camerieri, d’ufficiali, d’impiegati della Società e di guardie di dogana, rimanevano attoniti, o si smarrivano come in una piazza affollata. Due ore dopo che era cominciato l’imbarco, il grande piroscafo, sempre immobile, come un cetaceo enorme che addentasse la riva, succhiava ancora sangue italiano».
La descrizione non finisce qui, ma la taglio per stare nei tempi brevi delle zolle. Ecco che la frase «l'imbarco fu penoso» assume contorni più precisi, anche se l'operazione è vista dall'alto, da qualche parapetto, non dall'interno della massa vociante e maleodorante dei passeggeri di terza classe. Si coglie però la lunghezza interminabile dell'imbarco, il baccano, il disordine, lo sfinimento degli emigranti. Dalle annotazioni di De Amicis in margine al manoscritto, sappiamo che la nave viaggia al completo e imbarca 1600 passeggeri in terza classe (più di 400 sono donne e bambini), 20 passeggeri in seconda e 50 in prima, oltre ai 200 uomini dell’equipaggio.
Si sarà notata una contraddizione relativa al nome della nave, che Bertoni chiama «Nordamerica» e De Amicis «Galileo». Il nome esatto è «Nordamerica II». Nel romanzo la nave – come gli ufficiali e alcuni viaggiatori - cambia nome. E su quella nave, che non è una nave qualsiasi, vale la pena dire qualcosa di più preciso. Lo farò nella prossima puntata.
2. Martedì. La nave
(De Gregori: «I muscoli del capitano», dal pezzo di piano)
Questa nave fa duemila nodi
In mezzo ai ghiacci tropicali
Ed ha un motore di un milione di cavalli Che al posto degli zoccoli hanno le ali La nave è fulmine
Torpedine, miccia
Scintillante bellezza
Fosforo e fantasia
Molecole d'acciaio
Pistone, rabbia
Guerra lampo e poesia.
La favolosa nave di cui parla Francesco de Gregori in questa canzone, è il Titanic, simbolo della potenza tecnica e della fiducia nel progresso del primo Novecento. Anche il Nordamerica II sul quale si erano imbarcati Edmondo de Amicis e Mosè Bertoni nel 1884 era, per quel tempo, una meraviglia della tecnica: costruito in Inghilterra due anni prima, con i suoi 8500 cavalli vapore, l'armatura a tre alberi e lo scafo particolarmente lungo e slanciato, poteva raggiungere velocità elevatissime e trasportare più di 1500 persone in Sudamerica in un paio di settimane.
De Amicis, pur mettendo al centro del suo romanzo la drammatica vicenda dell'emigrazione e le vicende umane particolari, dedica alcune pagine alla nave, scende nella sala macchine, ne rimane affascinato e spaventato, ne celebra la potenza, senza lasciarsi tuttavia prendere da un'eccessiva fiducia nella tecnica.
«Quel movimento vertiginoso di stantuffi, di bilancieri e di turbine, che gl'ingrassatori rasentano con un'apparenza di noncuranza che fa rabbrividire ; quel frastuono assordante che producono insieme lo strepito delle manovelle, i fischi delle valvole atmosferiche, il rumor sordo delle pompe ad aria e i colpi secchi degli eccentrici; quel va e vieni di spettri coi lumi alla mano, che salgono e scendono dalle scalette, spariscono nelle tenebre, riappariscono di sopra e di sotto, facendo scintillare per tutto acciaio, ferro, rame, bronzo (...), tutto questo ci confonde nel capo anche le poche idee nette che avevamo prima di scendere. E ci sentiamo rassicurati davanti alla grandezza poderosa di questi meccanismi; ma scema questo sentimento a poco a poco, al veder con che cura minuta i macchinisti li vigilano...»
Anche dall'emigrante-scienziato Mosè Bertoni ci si potrebbe aspettare qualche osservazione su questa meraviglia della tecnica: botanico di formazione, è intriso di positivismo e molto attento agli strumenti scientifici e alla tecnica applicata. Invece si limita a un'osservazione laconica: «Il vapore, come barco, è buonissimo, rapido e ben costrutto». È vero che lui non sta scrivendo un romanzo, sta solo comunicando ai parenti come si è svolto il viaggio. Si resta tuttavia un po' sorpresi, anche perché in altre occasioni non si trattiene certo dal descrivere nei minimi particolari ciò che vede e ciò che gli capita.
Quanto agli altri emigranti, il disinteresse nei confronti della nave sembra totale. Ce lo dice Edmondo de Amicis:
«Curioso! Quasi tutti si trovavano per la prima volta sopra un grande piroscafo che avrebbe dovuto essere per loro come un nuovo mondo, pieno di maraviglie e misteri; e non uno guardava intorno o in alto o s’arrestava a considerare una sola delle cento cose mirabili che non aveva mai viste. Alcuni guardavano con molta attenzione un oggetto qualunque, come la valigia o la seggiola d’un vicino, o un numero scritto sopra una cassa; altri rosicchiavano una mela o sbocconcellavano una pagnotta, esaminandola a ogni morso, placidissimamente, come avrebbero fatto davanti all’uscio della loro stalla».
(rumore di mare, che resta sullo sfondo)
In un altro passaggio De Amicis si stupisce anche dell'assoluto disinteresse di fronte al mutevole e grandioso spettacolo del mare: «Non ricordo d'aver mai inteso fra quegli emigranti un'esclamazione ammirativa per l'Oceano», dice. Questa estraneità di fronte al mare e all'esperienza della navigazione è confermata dai temi che ricorrono nelle lettere degli emigranti: si parla del mangiare, delle burrasche, del mal di mare. Qualche volta della scomodità dei dormitori. Per il resto queste lettere sono piuttosto avare di informazioni sulla vita quotidiana a bordo. È quasi eccezionale questo passaggio di una lettera di Giuseppina Bertoni, la madre di Mosè, alle sue cugine biaschesi:
«Sul bastimento siamo stati molto male: il cibo non era cattivo, ma grasso, ed il disordine che regnava sul Nordamerica era tale e tanto che a bordo non abbiamo potuto mai avere tutti i piccoli comodi che ci avevamo provvisti. Per esempio avevamo fatto una provvista di Liebig per sostentarci, ebbene non abbiamo mai potuto trovarlo che a Buenos Aires!! Per un miracolo abbiamo trovato il latte condensato per i bambini ed anche per noi! Le coperte, le traponte, tutto insomma quello che aveva provveduto per rendere meno penoso il viaggio non abbiamo mai potuto trovarlo, perché tutto era stato piggiato giù per la stiva nel più completo disordine; persino gli abiti per cambiarci noi ed i piccoli li abbiamo trovati dopo infinite ricerche soltanto gli ultimi giorni! di modo che, sia per la sporcizia che vi era a bordo, sia che i fanciulli si sporcano sempre di più, essi non avevano più figura umana, e ci saliva il rossore a lasciarli vedere!».
E qui l'insolita abbondanza di dettagli si spiega anche per il fatto che Giuseppina è una donna, e che donne sono pure le destinatarie. La maggior parte delle lettere sono scritte da uomini, meno coinvolti nelle mille preoccupazioni concrete del viaggio. Il ruolo delle donne non sfugge a Edmondo De Amicis, che ce le descrive spesso, nel romanzo, attente a nutrire la famiglia, a pulire i bambini, a riordinare le poche cose nel disordine generale. Né gli sfugge il momento in cui, come abbiamo visto, finalmente gli emigranti possono avere accesso ai bagagli:
«il passaggio dell’equatore era una festa per tutti, specialmente per la distribuzione straordinaria ch’era stata annunziata, di tre litri di vino per rancio; ed anche perché avendo il comandante dato ordine di aprire la stiva e di lasciar pigliare i bagagli, era per molti una vera gioia di poter rifornirsi di roba e rimestare un poco i propri cenci, conciati in modo miserando dall’umidità della zona tropicale».
È probabile che in quel momento di festa qualcuno suonasse la fisarmonica...
(René Marino Rivero, «Camino al don», traccia n. 5)
3. Mercoledì. Il mal di mare
(Il tragico affondamento del bastimento Sirio)
E da Genova il Sirio partivano/ per l’America varcare... varcare i confin
ed a bordo cantar si sentivano tutti allegri/del suo... del suo destin.
Urtò il Sirio un terribile scoglio/ di tanta gente la mise... la misera fin:
De Amicis era tornato dal Sudamerica proprio con la nave Sirio, di cui questo canto popolare evoca il naufragio avvenuto una ventina d'anni più tardi. In questi viaggi il terrore del naufragio è onnipresente fra gli emigranti, così come l'esperienza del mal di mare. Ecco come sintetizza il suo viaggio Albino Leoni di Moghegno, che nel giugno del 1870 navigava verso gli Stati Uniti:
«Sul mare siamo stati 16 giorni delle quale ne abbiamo avuto 4 assai tranquilli e 12 una continua burasca, e questa fu l'occasione di molti vomitori, perché siamo stati costretti a taccarci l'un l'altro affinché le onde che combattevano contro il bastimento non mi facesse andare da una parte all'altra come tante borrette, e in questo modo tra le onde (e) tra il tanfo di molta gente, tutti giorni era un continuo vomitare tanto io quanto i compagni».
E questa è la testimonianza di Bettina Sassi di Sonvico, giunta in Argentina nel dicembre del 1901:
«Il primo giorno che ero in mare s'è allevato una gran burrasca. Tutte le donne le hanno mandate abbasso. Tutto ad un tratto se sente un rumore come a scorrere lì vicino un gran torrente, guardiamo intorno ed era l'acqua che veniva abbasso dal coperto, erano le onde come montagne che passavano sopra il bastimento. Tutte piangevano e pregavano».
Una scena molto simile è descritta anche nel romanzo Sull'Oceano. Proprio il giorno precedente l'arrivo in Sudamerica, la nave incappa in una burrasca spaventosa. De Amicis dedica all'avvenimento pagine concitate. Quel che avviene nei dormitori della terza classe gli è descritto dal Commissario di bordo:
«Aveva visto là sotto delle masse intricate di corpi umani, gli uni sopra e a traverso gli altri, con le schiene sui petti, coi piedi contro i visi, e le sottane all'aria; viluppi di gambe, di braccia, di teste coi capelli sciolti, striscianti, rotolanti sul tavolato immondo, in un'aria ammorbata, in cui d'ogni parte suonavano pianti, guaiti, invocazioni di santi e grida di disperazione. Delle donne inginocchiate in gruppi, con le teste prone, dicevano il Rosario».
Nelle scarne note di Mosè Bertoni, viene messo in rilievo soprattutto il primo impatto col mare agitato, avvenuto poco dopo la partenza da Genova:
«Fatta eccezione di 3 giorni sotto la linea, il mare fu cattivo durante tutto il viaggio; sinora il Nord-America non aveva ancora fatto un viaggio così cattivo. Nel golfo di Lione, una burrasca ci aspettava. Durante tutto il viaggio il bastimento era sbattuto dalle onde come un guscio d’uovo. Quasi tutti ebbimo il mal di mare».
Stando a De Amicis, il mare mosso nel Golfo del Leone, di fronte a Marsiglia, non era che un modesto anticipo di quel che i viaggiatori avrebbero vissuto più tardi. Ma già quel primo agitarsi delle onde aveva messo in difficoltà gli emigranti, per lo più gente di campagna o montanari:
«Lo spettacolo eran le terze classi, dove la maggior parte degli emigranti, presi dal mal di mare, giacevano alla rinfusa, buttati attraverso alle panche in atteggiamenti di malati o di morti, coi visi sudici e i capelli rabbuffati, in mezzo a un grande arruffio di coperte e di stracci. Si vedevan delle famiglie strette in gruppi compassionevoli, con quell’aria di abbandono e smarrimento, che è propria della famiglia senza tetto: il marito seduto e addormentato, la moglie col capo appoggiato sulle spalle di lui, e i bimbi sul tavolato, che dormivano col capo sulle ginocchia di tutti e due: dei mucchi di cenci, dove non si vedeva nessun viso, e non n’usciva che un braccio di bimbo o una treccia di donne. Delle donne pallide e scarmigliate si dirigevano verso le porte del dormitorio, barcollando e aggrappandosi qua e là. (...) Pareva che la prima esperienza della vita inerte e disagiata del bastimento avesse smorzato in quasi tutti il coraggio e le speranze con cui eran partiti».
(mare)
4. Giovedì. Mangiare
(«La spusa», ultime due strofe. Pietro Bianchi e Roberto Maggini, registrazione dal vivo a Comologno)
Sul Nord-America, la nave descritta nel romanzo Sull'Oceano di De Amicis, gli emigranti non partecipavano certo ad abbuffate da paese della cuccagna, ma non mancava loro il cibo: «Quanto agli alimenti, erano buoni e per un bastimento non c’era a che dire», scrive Mosè Bertoni. Secondo sua madre Giuseppina «il cibo non era cattivo, ma grasso». In ogni caso la quantità è sufficiente, se è vero che, come dice ancora Mosè, «Quanto ai fanciulli, qualche vomito causato da indigestione, perché mangiavano come demoni, del resto niente. Del resto i fanciulli non soffrono mai pel mare».
Nel romanzo, De Amicis non parla in dettaglio dell'alimentazione degli emigranti, ma nelle sue carte è trascritto un menu di terza classe:
«Colazione ore 8 mattina/ 5 dì alla settimana caffè nero e gallette/ con rum o alici e gallette con vino// Pranzo alle 12/ minestra di pasta o riso/ 1 piatto 200 grammi di carne/ 1 piatto legumi: 1/4 litro [di vino] ciascuno// Cena/ Un’ora prima del tramonto/ 200 g. di carne o stufato/ con patate, o arrosto con insalata o pesci/ 1/4 litro [di vino]/ Domenica 1 piatto frutta e 1/2 litro vino».
In un Manuale dell’emigrante italiano all’Argentina del primo Novecento si indicano razioni giornaliere ancora più abbondanti: 700 g di pane fresco, 250 g di carne fresca o 200 di carne in conserva, 120 g di baccalà, 50 g di tonno sott’olio, 30 g di acciughe salate, 200 g di patate, 120 g di riso, 50 g di piselli o fagioli, 100 g di pasta per brodo o 160 quando si tratta di pasta al sugo, 20 o 30 g di olio d’oliva, 50 g di formaggio, mezzo litro di vino o tre quarti di litro quando si servono sardine invece del caffè.
Forse le quantità promesse non venivano rispettate e la dieta reale era un po' meno ricca. (E bisogna tener conto che a causa del mal di mare parecchio cibo veniva vomitato). In ogni caso, buona parte degli emigranti di fine '800 si sono trovati, nel corso del loro viaggio transoceanico, di fronte a un'abbondanza a cui non erano abituati. Per chi veniva da una vita di fame e carestia – non è il caso dei Bertoni ma di molti contadini italiani presenti sulla nave – già il fatto di mangiare regolarmente tre volte al giorno era una novità benedetta. Per molti emigranti la dieta del bastimento è un'anticipazione di quel rovesciamento delle consuetudini alimentari che avrebbero vissuto in Brasile o in Argentina, dove la carne, prima solo sognata, sarebbe stata a portata di dente anche per i poveri.
Aquilino Vanina di Biasca, imbarcatosi per l'America nel 1789, ricorda addirittura il viaggio come una piacevole passeggiata domenicale:
«Alla mattina il caffè e pane in quantità e pane migliore del nostro, a mezzo giorno il brodo e la carne con un bicchier di vino a testa e la sera. È un vapore molto netto. Io solo posso dire che non ho mai vomitato, mai malor di testa né niente (...) posso proprio dire che la mia navigazione è stata come andare una volta ai grotti».
Per Dante Righetti di Someo, che va in California nel 1902, «I pasti erano abbastanza abbondanti, almeno per alcuni di noi, assuefatti a vivere malamente a casa nostra», mentre Valentino Sassi da Sonvico, giunto in Argentina cinque anni dopo i Bertoni, scrive che «Si mangia benissimo, ma a dormire da bestia sono in mezzo a tutti i Calabresi e napoletani». Certo non mancano esperienze negative, come quella di Bettina Sassi di Sonvico, giunta in Argentina nel 1901:
«Il viaggio l'ho passato anche bene, ma era quel benedetto mangiare tanto sporco, che quando s'incominciava bisognava chiudere gli occhi, e lì mangiar come fanno i porchi a dir la verità».
Se De Amicis non parla di quel che mangiano gli emigranti, è attento, fin dall'imbarco, a come viene organizzata la distribuzione del cibo:
«via via che salivano, gli emigranti passavano avanti a un tavolino, a cui era seduto l’ufficiale Commissario; il quale li riuniva in gruppi di mezza dozzina, chiamati ranci, inscrivendo i nomi sopra un foglio stampato, che rimetteva al passeggere più anziano, perché andasse con quello a prendere il mangiare in cucina, all’ora dei pasti».
E più avanti:
«Una parte dei passeggeri intingevano ancora le gallette nel caffè nero, con le gamelle di latta sulle ginocchia; alcuni lavavano le stoviglie negli acquai, o distribuivano l’acqua dolce al loro rancio coi così detti bidoni, della forma di coni tronchi, dipinti di rosso e di verde; gli altri stavano accovacciati lungo i parapetti, nelle positure proprie dei contadini, abituati a riposar sulla terra, o passeggiavano con le mani in tasca, come la domenica sulla piazza del villaggio».
Gli emigranti devono quindi organizzarsi in gruppi – in ranci – per ritirare e in parte preparare i viveri in condizioni difficili. Una ventina di anni prima Virgilio Rotanzi di Peccia spiegava che «i viveri mi furono consegnati buoni ed abbondanti, ma si faceva grande fatica per cucinarli, essendovi soli 12 fornelli per circa 250 persone». Non sappiamo di che strutture disponessero i viaggiatori del Nordamerica, ma una cosa è certa: erano per lo più le donne a farsi carico degli aspetti organizzativi legati al mangiare: «Di giorno siamo molto occupate, sia per i fanciulli, sia per fare il cibo per tanta gente, e tutto senza comodi» ricorda la sessantenne Giuseppina Bertoni. Quanto agli uomini, De Amicis li descrive spesso a ciondolare distrattamente sul ponte (come abbiamo appena sentito) o impegnati in discussioni, anche politiche, in piccoli gruppi. Il microcosmo della nave ripropone sia la stratificazione sociale della terraferma (le tre classi di passeggeri, la gerarchia del personale) sia la divisione sessuale dei compiti.
(René Marino Rivero, «Polca de Zamora», traccia n. 10)
5. Venerdì. La durata
(26 giorni di nave a vapore)
Ventisei giorni di nave a vapore/ fino in America noi siamo arrivati...
La maggior parte delle versioni di questo noto canto d'emigrazione parla di «30 giorni di nave a vapore», alcune di quaranta. Ho scelto questa lezione bergamasca, perché con i suoi 26 giorni si avvicina di più ai giorni impiegati per giungere in Sudamerica dalla nave che stiamo seguendo: il Nord-America, su cui viaggiano Edmondo De Amicis e la famiglia bleniese dei Bertoni.
Mosè Bertoni è moto preciso: «Ci fermammo 1/2 giorno a Marsiglia, 1 e 1/2 a Gibilterra e 1 e 3/4 a Montevideo; in tutto 3 giorni e 3/4 di fermata; aggiungansi 16 giorni di viaggio e si avrà la data del 30, giorno del nostro arrivo; non sbarcammo però che il 31». Sono quindi 20 giorni, fermate comprese: cinque in più di quei quindici pubblicizzati dalla compagnia genovese proprietaria della nave.
Il vapore permette di garantire un viaggio più regolare, di non rimanere bloccati dalle frequenti bonacce. Nel romanzo De Amicis racconta l'incontro con un veliero italiano proveniente dal Cile. È in viaggio da due mesi e fermo da 18 giorni nelle calme equatoriali!
(mare)
Dopo aver evidenziato, con pagine toccanti, la triste avventura collettiva degli emigranti del bastimento Nord-America (o Galileo, come è chiamato nel romanzo), De Amicis non può non riconoscere che in fondo questi che viaggiano con lui, su una nave veloce e sicura, sono dei privilegiati:
«E ancora si potevan chiamare fortunati, per il viaggio almeno, quegli emigranti del Galileo, in confronto ai tanti altri che, negli anni andati, per mancanza di posti in stiva, erano stati accampati come bestiame sopra coperta, dove avevan vissuto per settimane inzuppati d’acqua e patito un freddo di morte; e agli altri moltissimi che avevan rischiato di crepar di fame e di sete in bastimenti sprovvisti di tutto, o di morir avvelenati dal merluzzo avariato o dall’acqua corrotta. E n’erano morti. E pensavo ai molti altri che, imbarcati per l’America da agenzie infami, erano stati sbarcati a tradimento in un porto d’Europa, dove avevan dovuto tender la mano per le vie; o avendo pagato per viaggiare in un piroscafo, erano stati cacciati in un legno a vela, e tenuti in mare sei mesi; o credendo di essere condotti al Plata, dove li aspettavano i parenti e il clima del loro paese, erano stati gittati sulla costa del Brasile, dove li avevan decimati il clima torrido e la febbre gialla».
E ancor più privilegiati sono lui e Mosè Bertoni, benché in modo diverso. Lui, scrittore affermato, viaggia comodamente, in prima classe, e raccoglie il materiale per un fortunato libro sull'emigrazione (e il primo frutto di questo lavoro sarà il celeberrimo racconto mensile di Cuore, «Dagli Appennini alle Ande»). Mosè Bertoni viaggia tra gli emigranti ma è un emigrante speciale. Fugge l'Europa più per scelta consapevole che per disperazione. Vuole creare una colonia agricola e scientifica a Misiones, in una zona argentina di nuova colonizzazione. Entrambi sono attesi, in misura diversa, come personaggi pubblici. La Voce del Ticino, il giornale dei ticinesi liberali a Buenos Aires, aveva dato la notizia già il 9 marzo, un giorno prima della partenza della nave da Genova:
«Si attende prossimo lo sbarco del noto De Amicis, che alle popolari sue descrizioni, vuol aggiungere anche quella di questa Argentina. E sia sin d’ora il benvenuto, molto più ch’egli viene in compagnia del nostro distinto concittadino Mosè Bertoni».
De Amicis sbarca a Montevideo e arriva solo più tardi a Buenos Aires, per dare alcune conferenze sul tema dell'emigrazione italiana. Bertoni e i suoi continuano per Buenos Aires, come la maggior parte dei 1600 emigranti stipati sul Nord-America, e dopo la sosta forzata all'Hotel de Inmigrantes intraprendono il viaggio verso l'interno.
Forse sulla nave i due si sono incrociati. Forse no, e allora quello di queste zolle è il loro primo incontro.
(René Marino Rivero, «La loca de amor», traccia n. 9)
Testi di riferimento:
• Edmondo De Amicis, Sull’Oceano, 1899.
• Danilo Baratti e Patrizia Candolfi, L'arca di Mosè. Biografia epistolare di Mosè Bertoni (1857- 1929), Casagrande, Bellinzona 1994.
• Ivano Fosanelli, Verso l’Argentina. Emigrazione, insediamento, identità tra Otto e Novecento, Dadò, Locarno 2000.
• Danilo Baratti e Patrizia Candolfi, Sull’Oceano con De Amicis. Mosè Bertoni, l’italiano, gli italiani, «Il Cantonetto», anno LXIV, n. 3-4, giugno 2017, pp. 12-24.
MosèBertoni, 2002, radio, zolle
- Creato il .
- Visite: 711