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Smisurato disastro (2025)

L’effetto delle guerre attuali sull’ambiente — 

«Due guerre ci assediano ormai. Esse sono internazionalizzate pur rimanendo ancora regionali. Esse aggravano la grande catastrofe ecologica che subisce il pianeta, e un po’ ovunque contribuiscono a questo aggravarsi». Ho letto questa frase del filosofo Edgar Morin (104 anni!) proprio mentre stavo scrivendo questo articolo. Ne può essere la sintesi, quindi apro con quella (tratta da «il manifesto» del 28 novembre, poi ripreso da Naufraghi).

Almeno per i due conflitti di cui parla Morin, gli organi di informazione ci danno quotidianamente la conta dei morti: unità in Ucraina, decine, a volte centinaia a Gaza. Vittime per lo più civili, come è noto. E ogni giorno è documentata dalle immagini la distruzione di case, scuole, infrastrutture vitali (reti energetiche e idriche, strade e ponti…): obiettivi isolati, mirati o colpiti a casaccio, in Ucraina e Russia, distruzione a tappeto a Gaza, con la striscia ridotta a un ammasso di macerie. 

Quasi quotidianamente sappiamo anche – da immagini, filmati, interviste, commenti – della sofferenza della popolazione: quella che affronta l’inverno ucraino in case sventrate, senza riscaldamento e con l’occhio al cielo che porta missili e droni, quella di chi a Gaza non ha nemmeno più la possibilità di buttarsi sotto un camion di passaggio, perché non ci sono più strade e perché non passano nemmeno quelli con scorte alimentari e materiali d’emergenza.

Molto più sporadicamente si tocca il tema della distruzione ambientale di queste guerre e delle guerre in genere. Magari lo si dà per scontato, ma se ne parla poco. Una certa attenzione mediatica si è manifestata intorno al 6 novembre, giornata delle Nazioni Unite “per la prevenzione dello sfruttamento dell’ambiente in situazioni di guerra e conflitto armato”. Ma probabilmente a molti la cosa è sfuggita, e non solo per la denominazione prolissa e poco incisiva della giornata. Riprendo quindi alcuni dati apparsi qua e là in quell’occasione e nei giorni successivi[1].

Distruzione diretta del territorio

In Ucraina, oltre a buona parte delle infrastrutture civili, sono stati devastati oltre 236 mila edifici residenziali. Ma anche il territorio non urbano è stato devastato (20,8 milioni di metri quadrati di suolo contaminati o inquinati), distrutti e incendiati campi e boschi (quasi un milione di ettari bruciati nel solo 2024). Sconvolte zone umide in cui sostavano uccelli in migrazione, con generale perdita di biodiversità. Un caso di particolare rilievo è stata la distruzione della diga di Nova Khakovka nel giugno 2023, con il conseguente allagamento di aree protette e la propagazione di almeno 150 tonnellate di materiali tossici provenienti da industrie, silos di stoccaggio di fertilizzanti e pesticidi, cimiteri, detriti. Una distruzione strategica per ostacolare con l’allagamento un’eventuale controffensiva ucraina e per impedire la produzione di energia elettrica. Il conseguente inquinamento forse non è stato pianificato, ma è un “effetto collaterale” pesante che, insieme alle mine inesplose sparse ovunque, renderà molto lungo e costoso il recupero. In generale quell’operazione ha prodotto una grave perturbazione degli ecosistemi fino alle coste del Mar Nero. 

Nella striscia di Gaza circa l’80% delle strutture sono distrutte o gravemente compromesse (a Gaza City, secondo dati satellitari raccolti a fine settembre 2025, l’83% delle strutture è stato danneggiato). Si parla di più di 250 mila abitazioni distrutte. Prima dell’ottobre 2023 circa il 47% della superficie totale era coltivato e c’erano 7’500 serre sul territorio. Un sistema agricolo già reso precario, del resto anche in Cisgiordania, da costanti attacchi e danneggiamenti, con il passaggio di bulldozer su orti e serre, intimidazioni nei confronti di fattori e contadini, lancio aereo di pesticidi ed erbicidi sulle coltivazioni di ulivi. La situazione ora è precipitata. Un rapporto della FAO sulla situazione al 28 luglio 2025 attesta che solo l’8,6% (1’301 ettari) dei terreni coltivabili nella Striscia di Gaza è ancora accessibile, e l’1,5% (232 ettari) accessibile e non danneggiato. Inoltre con l’abbassamento delle falde sotterranee l’acqua salata del mare è penetrata nel sottosuolo; la capacità residua di desalinizzazione è stimata al 31% rispetto a due anni fa.

Ecocidio

Ecocidio è il termine a cui si fa ricorso per indicare la distruzione deliberata di un ecosistema naturale come arma di guerra. Il concetto nasce negli anni ’70, in relazione alla guerra del Vietnam, quando l’esercito statunitense ha usato i defolianti per distruggere le foreste che permettevano ai vietcong di nascondersi.

Per la Palestina di ecocidio si parlava ben prima degli attacchi del 7 ottobre: la pratica israeliana di distruggere le piantagioni di ulivo palestinesi – per costringere chi vi lavora ad andarsene – è da tempo considerato un esempio di ecocidio funzionale alla pulizia etnica. Una pratica costante, dalla violenza anche simbolica, oltre che fisica, particolarmente raccapricciante. Se ne è riparlato recentemente in occasione della stagione della raccolta delle olive in Cisgiordania, la più pericolosa degli ultimi decenni. Per il 2025 si parla di 48’728 alberi danneggiati o abbattuti, di cui 37’237 ulivi.

Anche per l’Ucraina si è parlato di ecocidio, per esempio nel caso già ricordato di Nova Khakovka. Per ora il reato di ecocidio non è riconosciuto giuridicamente in modo univoco, anche se alcuni Stati  iniziano a codificare il reato di ecocidio nei propri diritti interni. Nel 2021 l’organizzazione Stop ecocide international ha riportato il tema al centro del dibattito internazionale, con la proposta di un emendamento all’articolo 8 (relativo ai crimini di guerra) dello Statuto di Roma, che definisce i crimini su cui può pronunciarsi la Corte penale internazionale, per includervi l’ecocidio come crimine a sé, riassumibile in «Atti illegali o arbitrari commessi nella consapevolezza di una sostanziale probabilità di causare un danno grave e diffuso o duraturo all’ambiente con tali atti».

Scorie militari e contaminazioni

 

Oltre al danno diretto causato da esplosioni e bombardamenti vi è la contaminazione da metalli pesanti e sostanze chimiche tossiche. Le scorie belliche – mine terrestri, residui di munizioni, carri armati abbandonati eccetera – restano nell’ambiente per decenni, rendendo i terreni non coltivabili, contaminando le falde acquifere, minacciando la sicurezza alimentare, mettendo a rischio la salute della popolazione a lungo termine. E ovviamente compromettendo la vita animale e vegetale. Questo vale per le guerre in generale.

A Gaza la situazione è devastante dal punto di vista atmosferico, di salute, di smaltimento di materiali, anche potenzialmente tossici. A giugno 2025 è stato stimato che dovranno essere rimossi circa 61 milioni di tonnellate di detriti (ma sono stime ormai superate, come altre citate qui).

In Ucraina sono stati abbandonati sul territorio 600’000 tonnellate di armamenti, e un milione di ettari di terreno sono inutilizzabili per un tempo stimato tra i 3 e i 5 anni. In questo momento il 30% del territorio ucraino è costellato di mine, munizioni e ordigni inesplosi. Anche Kiev fa la sua parte nella devastazione ambientale, per esempio incendiando raffinerie e petroliere russe.

 

Un grande contributo ai gas serra

Già in tempo di pace industria bellica e forze armate contribuiscono in modo significativo alle emissioni di gas serra attraverso l’uso di combustibili fossili e la produzione di armamenti: la loro quota di gas serra è del 6%.

Dal giorno dell’invasione dell’Ucraina al febbraio 2025 si calcola un rilascio nell’atmosfera di 237 milioni di tonnellate di CO2 (il dato è ottenuto computando anche l’uso di combustibili per muovere carri armati e aerei, gli incendi provocati nelle foreste, le esplosioni nelle raffinerie e nei depositi di carburante, il dirottamento del traffico aereo fuori dalle aree di guerra, che ha costretto i voli civili a percorrere più chilometri, nonché la stima delle emissioni che verranno prodotte per la ricostruzione).

Uno studio del Social science research network uscito il 30 maggio 2025 (pubblicato dal «Guardian»), stima che nei primi 15 mesi di conflitto a Gaza «le emissioni totali di carbonio dovute alle attività belliche dirette siano pari a 1'898’330 tonnellate di biossido di carbonio equivalente (tCO2e). Calcolando non solo l’impatto in termini di emissioni delle attività militari israeliane, ma anche il costo ambientale della distribuzione di aiuti, delle operazioni propedeutiche ai bombardamenti – come i trasferimenti di materiale militare – e soprattutto della futura ricostruzione di Gaza, oggi ridotta in macerie, la cifra sale a 31 milioni di tCO2e» (la sola ricostruzione varrebbe 29 delle 31 milioni di tonnellate di CO2 calcolate). Da notare che in tutte queste valutazioni non si parla della ricostruzione degli habitat naturali.

La sottrazione di risorse

Ma c’è un altro contributo di queste guerre al disastro ambientale globale, certamente di gran lunga superiore al già impressionante impatto in termini di emissioni: è la corsa al riarmo, con la conseguente sottrazione di risorse alle politiche di prevenzione del cambiamento climatico e dei suoi effetti. Non è necessario dilungarsi su questo punto, perché è sotto gli occhi di tutti, e la Svizzera non fa eccezione. Forse un giorno gli studiosi – se nella società futura di impronta tramputiniana si faranno ancora studi in questo ambito – ci sapranno dire con precisione quanto l’aggressione all’Ucraina abbia pesato globalmente in termini di ritardo delle politiche ambientali. In ogni caso è evidente – al di là delle dinamiche già in atto e delle ragioni addotte (ma se si è per la composizione nonviolenta dei conflitti, qualsiasi giustificazione che porti alla guerra è inaccettabile) – che la guerra di Putin ha avuto un ruolo centrale in questo processo regressivo dalla portata gigantesca, probabilmente catastrofica considerato il punto di svolta in cui si trova l’umanità. L’unica via d’uscita è quella, che pare al momento impossibile, del “disarmo climatico”: disinvestire dalla guerra, investire nella giustizia climatica. Ma Putin, Netanyahu, Trump, Von der Leyen, Kallas, Pfister, Rösti, in compagnia di moltissimi altri governanti, ci stanno portando a grandi passi in tutt’altra direzione (una direzione che, diciamolo almeno tra parentesi, era stata imboccata, sebbene con toni diversi, anche da persone più presentabili come l’inetto Biden o la verde tedesca Baerbock).

Disarmo climatico: è una parola! Anzi due. Ma non c’è altra strada.

 

[1] Segnalo, tra le varie fonti utilizzate, un articolo di Pietro Piga per Vatican News accompagnato da un’intervista di Radio vaticana a Marzio Marzorati (6 novembre), un articolo di Cinzia Boschiero su salvettifoundation.it (8 novembre), uno di Sara del Dot su Gariwo Mag (12 novembre), un servizio del RG della RSI del 21 novembre dopo la pubblicazione del rapporto Climate damage caused by Russia’s war in Ukraine (ottobre 25). E ancora: retepacedisarmo.org/disarmo-climatico/ e un articolo sugli ulivi di Michele Giorgio («il manifesto», 19 ottobre). 

 

testo pubblicato su «Nonviolenza», n. 6, dicembre 2025, pp. 16-17: Scarica Smisurato disastro - NV 61

e su «Naufraghi/e»: https://naufraghi.ch/smisurato-disastro/

 

guerre, esercito, Nonviolenza, Naufraghi, IsraelePalestina, 2025

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