Che cosa bevevano gli anarchici? (2014)
Un'intervista/ricerca sul vino consumato nelle osterie ticinesi di fine '800
Gli anarchici s’incontravano e tenevano i loro congressi in osteria. Ma che vino bevevano?
Piero Brunello intervista Danilo Baratti[1].
Una ventina circa di anarchici lombardi e veneti, tutti uomini, si diedero appuntamento in un grotto a Chiasso, appena fuori del confine, perché in Italia avrebbero rischiato l’arresto. Era il 5 dicembre 1880, una domenica; i partecipanti ricordano nasi rossi dal «freddo siberiano» che faceva. Tra i partecipanti all’incontro: Carlo Cafiero, esule nella vicina Lugano, già famoso per aver guidato una banda di insorti sui monti del Matese; Osvaldo Gnocchi Viani, che pubblicava a Milano la Plebe, forse la voce più prestigiosa del movimento in Italia; Paolo Valera, reduce da un processo per aver pubblicato il reportage Milano sconosciuta con lo pseudonimo Giuda Iscariota; Carlo Monticelli, autore di canti anarchici conosciuti anche oggi, ma che usciva allora per la prima volta dall’ambiente veneto; Natale Della Torre, un pittore che aveva fatto l’Accademia alla Brera e frequentava gli artisti della Scapigliatura, anche anche lui con un processo alle spalle a causa di un manifesto internazionalista; Tito Zanardelli, che faceva giochi di prestigio e di magnetismo nei circhi e nei teatri, ma che allora viveva in esilio a Parigi. Se si eccettua Gnocchi Viani, che aveva passato i quarant’anni, e pochi trentenni come Cafiero, gli altri erano perlopiù ventenni; la maggior parte veniva da Milano.
Discussero se il congresso dovesse definirsi «comunista anarchico» («ciascuno dà secondo le sue forze e riceve secondo i propri bisogni») oppure «collettivista» («ciascuno dà secondo le sue forze e riceve secondo il proprio lavoro»). Fu una lunga discussione, che andò avanti la domenica fin dopo mezza notte, e il lunedì fin dopo le quattro del pomeriggio. Si trattava di una divisione seria, tanto che quello fu l’ultimo incontro in cui le due diverse componenti dell’Internazionalismo si ritrovarono insieme. Sappiamo anche chi appoggiò la mozione anarco-comunista e chi quella collettivista. Ma che vino avranno mai bevuto?
Piero a Danilo, sabato 8 ottobre 2011, ore 11,02
Caro Danilo, vorrei scrivere un piccolo contributo per una pubblicazione curata da un viticoltore di Valdobbiadene, Giovanni Gregoletto, un amico che cura appunto dei quaderni che hanno per argomento il vino. Io non me ne intendo, perciò ho pensato: scriverò su anarchici e vino, concentrandomi sugli anni che conosco meglio, quelli degli anni Settanta – Ottanta dell’Ottocento.
Si sa che gli anarchici s’incontravano comunemente nelle osterie: è qui che avvenivano riunioni e si tenevano convegni, sia locali sia internazionali. Fatto sta che i primi internazionalisti (per rimanere al periodo che ho studiato più da vicino) hanno lasciato dettagliati resoconti sulle discussioni ideologiche e politiche, spaccando il capello in quattro, ma non ci dicono mai che cosa bevevano: eppure s’incontravano sempre e solo in osteria.
Insomma, bisogna rivolgersi ad altre fonti, e procedere per immaginazione.
Per questo ti scrivo: avresti voglia di collaborare a una intervista per email, cercando di rispondere, anche per ipotesi, sull’argomento? Pensavo di limitarmi all’incontro di un gruppetto di anarchici lombardi e veneti nel grotto della Giovannina a Chiasso, nel 1880. E così ho pensato a te, visto che abiti lì vicino, e che hai studiato la storia dell’anarchismo.
Danilo a Piero, sabato 8 ottobre, ore 14,27
Caro Piero, possiamo anche tentarla, questa intervista scritta. Le risposte, che ancora non conosco, incuriosiscono anche a me; a suo tempo avevo constatato il silenzio sulla «qualità del vino» nell’accurata relazione poliziesca di una riunione anarchica luganese del 1903: sappiamo le strofe cantate e le parole dette durante un brindisi al regicida Gaetano Bresci, ma del vino neppure il colore (D. Baratti e P. Candolfi, «Anonimi compagni». Anarchici in Svizzera tra Otto e Novecento, in Gli italiani in Svizzera. Un secolo di emigrazione, a cura di Ernst Halter, Casagrande, Bellinzona, 2004, p. 142).
Qualche dato in proposito lo posso cavare da Antonio Verda, Les vins du Canton du Tessin, Bellinzona 1931. Verda utilizza uno studio inedito Paleari e Tonduz con informazioni sul periodo precedente la ricostituzione dei vigneti ticinesi di fine Ottocento (resa necessaria dall’arrivo della micidiale fillossera). Da lì si può già fare qualche ipotesi su cosa bevessero i nostri sorvegliati. Magari occorrerà poi fare qualche mini-ricerca in corso d’intervista...
Piero a Danilo, sabato 8 ottobre, ore 22,02
Tu ricordi, per cominciare, che siamo prima della ricostituzione dei vigneti attuata per rispondere ai gravissimi danni della fillossera. Puoi spiegare meglio la situazione? Che cosa dice il libro di Antonio Verda?
Danilo a Piero, sabato 8 ottobre, ore 23,52
Poco dopo l’incontro di questi anarchici a Chiasso, arriva anche in Ticino la fillossera, un afide di provenienza americana, che provoca danni enormi in vigneti già provati dall’oidio e dalla peronospora, malattie crittogamiche diffusesi nella seconda metà dell’Ottocento. All’alba del nuovo secolo inizia un processo di ricostituzione dei vigneti che vede l’introduzione, e poi il trionfo, del Merlot e l’abbandono di molte varietà coltivate in precedenza. Questo rende più difficile ipotizzare cosa bevessero i convenuti a Chiasso: il quadro vitivinicolo del Novecento, ben conosciuto, non ci aiuta affatto.
Fortunatamente nella pubblicazione di Antonio Verda si trovano riferimenti ai vitigni presenti prima della «ricostituzione», tratti da un precedente studio. E sono: «Bondola, Bondoletta, Spanna milanese (Freisa), Spanna vecchia (Nebbiolo), Rampinella, Margellana (o Schiava), Vespolina (o Novarina), Pignora, Paganora, Berzamina, Gardana, Canina, Lambrusco, Brugnolò, Martesana, Rossera, Rosinella, Lugliatica, Negretta, Dolcetto, Barbera, Balsamina, Grignolino, Corbeau (o Castellana)». Più qualche vitigno americano, con prevalenza di Isabella.
Ora, se si trattasse di un’osteria del Locarnese – regione che vede un nutrito viavai di anarchici nel decennio precedente – potrei sbilanciarmi facilmente in favore della Bondola, vitigno allora dominante in quell’area (e tuttora presente: una produzione, come usa dire, di nicchia). Ma per Chiasso la cosa è più difficile. Dalla Giovannina potrebbero aver bevuto una Freisa secca. Vivace e asciutta, si accosta bene alle bocche anarchiche. O più probabilmente un miscuglio di uve locali, quel tipo di vino generalmente chiamato «nostrano». Magari cattivo. Lo storico Raffaello Ceschi cita il giudizio di enologi svizzeri tedeschi passati di qui verso il 1860: vini «per lo più grami, ed anche gramissimi». Di bassa gradazione alcolica e di difficile conservazione.
Fin qui ho dato per scontato che si trattasse di un rosso, per ovvie ragioni di colorazione politica, ma se si trattasse di un bianco?
Piero a Danilo, domenica 9 ottobre, ore 21:26
Prima di procedere: ma si diceva vino rosso o vino nero?
Me lo sono chiesto perché quand’ero piccolo, a casa mia, e nelle campagne trevigiane, si diceva «vin nero». Ho fatto una velocissima ricerca in google libri e, se non ho visto male, tra il 1870 e il 1890 si usava sia «vino rosso» sia «vino nero»; ma la guida turistica Baedeker per il nord Italia, nell’edizione del 1870, riporta «vino nero», che traduce con «red wine» (K. Baedeker, Italy. Handbook for Travellers. I. Northern Italy and Corsica, Second Edition, Revised and Augmented, Coblenz 1870, p. XX). Si sa qualcosa per il Ticino?
Danilo a Piero, domenica 9 novembre, ore 23,17
«Vi negre», come in catalano? No, qui non mi pare. Le fonti colte che ho qui in casa, il già citato Verda e i manuali del direttore dalla Cattedra ambulante di agricoltura Alderige Fantuzzi parlano di rossi e bianchi. Il dr. Giovanni Rossi, animatore con Fantuzzi della ricostituzione dei vigneti ticinesi di inizio Novecento e grande promotore del Merlot, usa sì l’aggettivo nero, ma per le uve. Ho consultato il Lessico dialettale della Svizzera italiana (LSI) e non trovo traccia di vino nero (e non possiamo attendere la lettera V dell'opera maggiore, il Vocabolario dei dialetti della Svizzera italiana [VDSI], straordinaria opera enciclopedica iniziata negli anni Cinquanta, mi pare, e ora giunta alla lettera D). Vi trovo invece sia «róss» sia «bianch» come aggettivi sostantivati per vino rosso e vino bianco. Nei prossimi giorni farò qualche verifica in biblioteca per sciogliere definitivamente il dubbio, ma direi che qui siamo nel mondo dei rossi e dei bianchi. Meglio allora riprendere da questi ultimi.
Piero a Danilo, lunedì 10 ottobre, ore 8,16
Temevo scherzi della memoria e ho controllato. Il Dizionario del dialetto veneziano del Boerio (1829) riporta «vin negro» (proprio così) e traduce con «vino rosso». Ma tornando a noi: nelle osterie di Chiasso si trovava vino rosso e vino bianco. Che bianco?
Danilo a Piero, lunedì 10 ottobre, ore 19,39
Va detto che è il rosso ad andare per la maggiore, ancora oggi, nei grotti ticinesi. A farmi accarezzare l’ipotesi di un bianco è la presenza, tra i vitigni bianchi coltivati in quell’epoca – accanto alla Verdasa, alla Bondola bianca, alla Zanetta, allo Zibibbo – della Corona del rosario. Te li vedi 17-18 anarchici (più la spia) brindare alla rivoluzione sociale con un bicchiere di Corona del rosario? Sarebbe bello poterlo almeno immaginare. Cercherò di saperne di più, su questa Corona del rosario. Il nome mi fa piuttosto pensare, non so bene perché, a un’uva da tavola. Il Verda la indica tra quelle scomparse all’alba del secolo: impossibile vederla o provarla.
Intanto mi è uscita la parola «bicchiere» e devo dire che non so se si usassero allora, dalla Giovannina, i bicchieri di vetro o le ciotole di terracotta smaltata, oggi proposte da alcuni grotti tendenti al pittoresco quando si chiede un «nostrano» (che non è più il nostrano di fine Ottocento, per le ragioni che abbiamo detto).
Prima che io nascessi, mio nonno aveva gestito per un certo tempo, negli anni Quaranta, un’osteria. A casa sua giravano certi bicchieri di vetro grosso che venivano ancora di lì. Neppure le raccolte fotografiche del tipo «Ticino com’era» (nel frattempo sono andato a controllare) aiutano molto: vi trovo ciotole e bicchieri. E se ci fosse da qualche parte una fotografia del grotto della Giovannina?
Piero a Danilo, martedì 11 ottobre, ore 18,25
Un gruppo di anarchici che brinda alla rivoluzione sociale con un Corona del rosario, ammesso che fosse un vino oltre che un’uva… In effetti, sarebbe bello poterlo immaginare, come dici tu. Me li vedo, riempiti i bicchieri (o le ciotole) di vin bianco con quel nome declamare l’Inno a Satana di Carducci: «te invoco o Satana / re del convito»... La Giovannina, che gestiva il grotto, e sua figlia, che a distanza di tempo Carlo Monticelli ricorda come una bella ragazza con «le guancie fiorenti», osservano divertite la scena, almeno così me le vedo: anche loro due (e questo è sicuro, perché è Monticelli a ricordarlo) avevano «in odio» i preti e gli oregiàtt, nomignolo che Monticelli italianizza in orecchiàt, e che indicava (è ancora Monticelli a spiegarlo) i conservatori clericali. «Via l’aspersorio, / Prete, e il tuo metro! / No, prete, Satana / Non torna indietro!»… La Giovannina non si scandalizza, sapeva in anticipo con chi aveva a che fare: le autorità cantonali, su pressione della polizia italiana, «avevano fatto di tutto» (lo sappiamo ancora una volta da Monticelli) perché non concedesse il locale per l’incontro.
Invece di declamare l’Inno a Satana, gli anarchici avrebbero potuto cantare l’Inno dell’Internazionale, sull’aria della Marsigliese: «Su leviamo alta la fronte / o curvati del lavoro; / Già sul culmine del monte / Splende il sol dell’avvenir», con il ritornello «Pace, pace ai tuguri del povero / Guerra guerra ai palagi e alle chiese». Ma qui stiamo appunto immaginando, mescolando cose che sappiamo realmente accadute con cose verosimili…
Tornando a noi, cioè ai vini, sento che in Ticino stanno riscoprendo le ciotole. E i vini prima della fillossera? persi per sempre? Oppure si stanno riscoprendo (o in qualche modo inventando) anche quelli, come le ciotole?
Danilo a Piero, martedì , ore 23,58
Ecco da dove esce quello strano «orecchiát» che mi aveva colpito leggendo il tuo libro (Storie di anarchici e di spie. Polizia e politica nell’Italia liberale, Donzelli, Roma 2009, p. 122): la colpa è di Monticelli («oregiátt» lo usiamo ancora oggi per i sostenitori del Partito Popolare Democratico, il partito democristiano di quassù).
Sto affannosamente correggendo dei lavori scolastici e rinvio a un altro momento la mia risposta.
Volevo verificare un paio di cose, in primo luogo sulla Corona del Rosario ma anche – pur abbastanza convinto che lì si bevesse del «nostrano» – cercare di capire che importazioni di vino ci fossero a quell’epoca. Non penso tanto all’«assortimento vistoso di Vini navigati» che vanta il «Caffè Terreni» di Lugano in una pubblicità inserita nella Guida storico-descrittiva-commerciale di Lugano-Bellinzona-Locarno del 1875 (redatta, guarda un po’, da due anarchici come Tito Zanardelli e Lodovico Nabruzzi). Anche se quei «Vini navigati» mi incuriosiscono molto, vorrei piuttosto verificare la circolazione di vini piemontesi o lombardi in ambienti popolari come quel grotto.
Quanto alla domanda che mi poni alla fine, per ora ti dico di fretta: non mi pare che ci siano stati recuperi di queivitigni abbandonati a fine Ottocento. Negli ultimi vent’anni la produzione vitivinicola ticinese ha visto novità e meraviglie, ma non in quella direzione.
Piero a Danilo, mercoledì 13 ottobre, ore 22,57
Mi fermerei su un paio di faccende.
La prima riguarda il grotto della Giovannina a Chiasso. Dicevo che la Giovannina sapeva con chi aveva a che fare, suggerendo l’ipotesi che avesse una certa simpatia per gli anarchici. Dal libro di M. Binaghi, Addio, Lugano bella. Gli esuli politici nella Svizzera italiana di fine Ottocento, Armando Dadò, Locarno 2002, p. 470, si viene a sapere che una decina di anni dopo le vicende di cui stiamo parlando, nel 1891, i delegati al congresso anarchico di Capolago si diedero appuntamento con la tessera d’invito proprio al grotto della Giovannina, per esigenze cospirative: solo lì seppero infatti del luogo del congresso (un’altra osteria, l’osteria dell’Ancora, a Capolago). Un locale frequentato dagli anarchici, quindi, il grotto della Giovannina. Una fotografia non sarà così difficile da trovare.
Oltretutto l’osteria rimase in funzione fino a dopo la seconda guerra. Mi ha scritto Fabio Pusterla, in coda a un’email: «Ah: nel grotto della Giovannina che ricordo io, del dopoguerra, si fermavano ormai quasi soltanto i frontalieri tornando a casa, a bere un bianchino e a cambiare i franchi in lire. Io ci andavo ogni tanto, perché i padroni avevano tre figlie piuttosto carine, e disgraziatamente irraggiungibili, almeno per me. Un lunghissimo tunnel che passa sotto la ferrovia (ci si passa sopra con il treno, appena abbandonata la stazione di Chiasso) collegava e collega tuttora quel quartiere periferico al centro del borgo. Quando ero un ragazzino, era il posto ideale per nascondere delle bombette di carnevale, aspettando che passasse qualche pedone; l'esplosione sembrava gigantesca, e il malcapitato si spaventava moltissimo. Sicché, del tutto inconsapevolmente, si trasformava in gioco non proprio innocente qualcosa di molto antico».
La seconda faccenda è una curiosità che mi è venuta vedendo che citi la Guida turistico-commerciale del Ticinoredatta nel 1875 dai due anarchici italiani Nabruzzi e Zanardelli. Proprio in quell’anno i due esuli presero a incontrarsi con Joseph Favre, naturalmente in un’osteria, e precisamente nell’osteria del Cavallino a Lugano, dove fondarono una sezione, la sezione del Ceresio. Favre era cuoco all’Hôtel du Parc, da quanto pare uno dei migliori alberghi di Lugano all’epoca. Tra l’altro, anni dopo Favre avrebbe pubblicato un Dizionario di cucina (Dictionnaire universel de cuisine et d’hygiène alimentaire, Paris 1888).
Un cuoco, un’osteria… Ho controllato i cenni biografici inseriti nel Cantiere biografico degli anarchici in Svizzera (http://www.anarca-bolo.ch/cbach/index.php), e ho visto che i commercianti di vino hanno una presenza non secondaria nel movimento.
Si comincia con Arturo Boffa, mercante in vini a Lugano, espulso dalla Svizzera negli anni Novanta. In quegli stessi anni il principale punto degli anarchici italiani in Ticino è Antonio Gagliardi, titolare di una ditta di vini a Melide: suoi soci l’anarchico livornese Francesco Ferdinando Cini e il marchigiano Mario Paoletti.
Quanto invece alla circolazione di vini piemontesi o lombardi in Ticino, ho fatto un controllo nel giornale «Corriere del Lario», consultabile online nell’Emeroteca digitale della Biblioteca Brera di Milano. Nel numero del 3 gennaio 1880 c’è la pubblicità di una ditta di Como che vendeva vini della Valtellina, e precisamente Inferno, Sassella e Grumello. I vini in fusti di 50 litri erano del 1877, mentre le bottiglie, che si vendevano in cassette da 6 o da 12, erano del 1875. Questi i vini che si trovavano a Como: ma oltrepassavano la frontiera? Che dazi c’erano? Non ne ho idea.
Danilo a Piero, venerdì 14 ottobre, ore 00,25
Interessante questa presenza di anarchici che commerciano vino. Proverò a vedere se salta fuori una loro pubblicità.
Intanto, a proposito di vini importati, da un avviso pubblicitario della filiale luganese dell'importatore Alfonso Coopmans (sedi a Chiasso e a Como) trovo questi vini da pasto: Toscano pianura rosso, Toscano collina rosso, Piemonte rosso, Montegrosso rosso, Piemonte bianco e Sicilia bianco. Tra i «vini fini», in bottiglia, Castel carnasino, Chianti vecchio, Barbera vecchio, Barolo extra. Il ritaglio è di fine Ottocento ma dovrei trovare la data esatta.
Ho chiesto al responsabile del Museo malcantonese, attento al tema, una sua ipotesi sul vino offerto nel 1880. Mi dice: «So che nelle osterie si beveva molto vino piemontese: Barbera ma anche un più generico “Piemonte” (chissà con cosa era fatto...). I vini ticinesi erano pessimi».
Credo, mettendo un po’ insieme le cose, che potremmo prendere in considerazione, accanto al «nostrano», l'altrettanto vago «Piemonte».
Volevo giusto sapere qualcosa su dazi.
Quanto ai vini spacciati nella regione lariana, ho l’impressione che più che i valtellinesi qui in Ticino girassero i piemontesi e i toscani. È un’impressione rafforzata dalla pubblicità appena citata ma fondata soprattutto sulla «longue durée»: prima di abitudini di consumo più sofisticate, diciamo fino a una trentina di anni fa, nei posti popolari si trovavano essenzialmente nostrano, Barbera, e Chianti; Fendant vallesano e Frascati tra i bianchi.
Del grotto della Giovannina ai tempi dell’infanzia e del lungo tunnel per raggiungerlo, Fabio mi aveva parlato qualche sera fa, tornando da una cena (dove si è bevuto un Barolo di Aldo Conterno – Bussia Soprana – del 1986: probabilmente migliore del Barolo extra di Alfonso Coopmans).
Sono appena rientrato da una riunione politica (dei Verdi, senza vino: altri tempi), è tardi, vado a letto. Quando raccolgo qualche altro dato utile mi faccio vivo.
Piero a Danilo, domenica 16 ottobre, ore 12,03
A tempo perso ho fatto qualche ricerca in google libri a proposito dell’esportazione dei vini piemontesi («vini Piemonte») in Svizzera. In effetti pare fosse quello il vino che si beveva, oltre a quello locale, anzi preferito a quello locale, soprattutto nel Ticino sotto il monte Ceneri, e cioè nella zona che c’interessa. «I cis-cinerini e tutti gli alpigiani preferiscono il vino piemontese, grosso, di color rosso carico, non di rado manifatturato», si legge in S. Franscini, La Svizzera italiana, I, Lugano 1837, p. 223. Lo stesso Franscini lo ripete dieci anni dopo nel volume Nuova statistica della Svizzera, Lugano 1847, p. 126.
Prima dell’Unità il commercio di vini piemontesi verso la Svizzera doveva essere una realtà economica di tutto rispetto, almeno a giudicare dal fatto che Cavour interviene molte volte nel parlamento subalpino per caldeggiare il miglioramento delle vie di comunicazione (strade, ferrovie, gallerie): da quello che si capisce, il Piemonte vendeva vino (tranne il Monferrato, proprio a causa della mancanza di strade), e la Svizzera formaggio (Discorsi parlamentari del conte Camillo di Cavour raccolti e pubblicati per ordine della Camera dei deputati, I, Torino 1863).
Danilo a Piero, lunedì 17 ottobre, ore 12,25 Aggiungo un paio di osservazioni alle ultime informazioni che hai raccolto. Al capitolo vini il Franscini dice anche, parlando di quelli locali: «Quasi per tutto si ha di mira la quantità del prodotto, e s’ottiene. Ad avere la buona qualità (...) giova poi estremamente nel nostro clima l’essere al coperto da’ venti boreali ed il godere più lunga pezza de’ raggi solari (...). Un tal pregio hanno nella opinion del paese vari vini del Mendrisiotto (Pedrinate, Novazzano, Morbio Inferiore Balerna, Castello) (...)» (La Svizzera Italiana, I, p. 222). Ecco: quella galleria buia di cui parlava Pusterla porta giusto a Pedrinate (oggi frazione del comune di Chiasso), e se diamo retta al Franscini il vino locale che poteva offrire la Giovannina non era poi tra i più cattivi. Posso aggiungere che «Pedrinate» è il Merlot «di punta» di un amico viticoltore, Luciano Cavallini (www.cantinacavallini.com). Franscini aggiunge, nella pagina successiva: «Non è poi così esatta l’opinione che il vino ticinese in generale non si conservi buono al di là di un anno o al più di due (...) ne’ buoni grotti non uno ma più anni si mantiene sano, e divien migliore». Insomma, magari la Giovannina aveva un vino ticinese più che bevibile. E però, ammettiamolo con Franscini, «i cis-cinerini e tutti gli alpigiani preferiscono il vino piemontese, grosso, di color rosso carico, non di rado manifatturato». Magari anche gli anarchici italiani di passaggio. Una curiosità: Franscini scrive in coda alla cosiddetta «piccola età glaciale» (se non mi ricordo male è solo dopo la metà dell’Ottocento che inizia la progressiva contrazione dei ghiacciai alpini). Dovremmo quindi immaginare che i vini del 1880 fossero assai migliori di quelli del 1837, o almeno che fosse migliore, in quanto a maturazione e gradazione, la materia prima. È anche vero che proprio in corrispondenza con l’arretramento dei ghiacciai abbiamo l’arrivo dell’oidio e della peronospora... e nel 1883 della fillossera. Se possiamo ipotizzare, da Franscini ai miei ricordi personali, una generale e costante predilezione dei ticinesi per il vino piemontese, la fornitura ha avuto i suoi momenti difficili. In particolare durante il blocco economico decretato dalle autorità austriache in Lombardia (1848-1850), quando le importazioni di grano, e suppongo anche di derrate meno vitali come il vino, subiscono un tracollo drammatico. E questo in un cantone già ridotto alla fame dalla crisi alimentare degli anni precedenti (nel febbraio del 1847 una banda di contadini e operai capeggiata dal bandito Luigi Pagani, detto il «mattiroeu», piomba su Mendrisio al grido di «Vogliamo mangiare, vogliamo bere, vogliamo denari»). Piero a Danilo, lunedì 17 ottobre, ore 22,15 E a questo punto, saresti in grado di avanzare qualche ipotesi? Danilo a Piero, lunedì 17 ottobre, ore 23,22 Direi che tutto sommato, pur con lacune e dubbi, potremmo concludere senza sbagliarci troppo che i nostri anarchici abbiano brindato con vino da pasto piemontese. O magari abbiano iniziato la riunione con il nostrano della Giovannina e poi, un po’ provati, alla lunga, da quel rosso asprigno, siano passati al «Piemonte». Certo che qualche partecipante non proprio povero in canna avrebbe anche potuto offrire del/la Barbera in bottiglia. Piero a Danilo, lunedì 17 ottobre, ore 23,52 Barbera in bottiglia? Bisognerebbe intanto sapere qualcosa sulla differenza di prezzo con il vino sfuso. Tra tutti, forse il solo Cafiero poteva permettersi una bottiglia. Leggo nella biografia scritta da P.C. Masini che un anno prima dell’incontro di Chiasso, con una parte dei soldi realizzati dalla vendita della villa Baronata, Cafiero aveva stipulato una rendita vitalizia che gli rendeva 160 franchi (P.C. Masini, Cafiero, Rizzoli, Milano 1974, pp. 249-250). Erano tanti o pochi? Quando Bakunin pensava di piantare tutto e forse emigrare in America (aveva «pochi soldi in tasca e molti creditori alle calcagna»), gli amici gli proposero un vitalizio di 300 franchi al mese, che l’anziano rivoluzionario rifiutò, chiedendo un prestito (p. 142). È vero che Bakunin doveva mantenere la giovane moglie e tre bambini piccoli, mentre Cafiero, dopo la separazione con la moglie Olimpia, viveva solo: ma ugualmente 160 franchi al mese non dovevano essere granché. Stando a Masini, la rendita vitalizia consentì a Cafiero di «tirare avanti, sia pure a stento» (p. 250). Però i giovani presenti dovevano essere messi ancora peggio: Carlo Monticelli, per dire, non aveva neanche una camicia di ricambio (T. Merlin, Gli anarchici, la piazza e la campagna. Socialismo e lotte bracciantili nella Bassa Padovana 1866-1895, Odeonlibri, Vicenza 1980, p. 119). Detto questo, non era solo una questione di soldi, anzi. Questi uomini amavano fare i viveurs. Ricorderai che l’arrivo di Bakunin e della sua famiglia – moglie, figli e suocero –alla villa Baronata di Locarno fu festeggiata con fuochi d’artificio, con razzi e con girandole: e l’amministrazione della villa navigava, come si dice, in un mare di debiti… E invece a proposito delle ciotole? Hai saputo qualcosa d’altro? Danilo a Piero, martedì 18 ottobre, ore 0,15 Sì, Samuel Butler viaggia da queste parti negli anni che ci interessano. Visita anche le cantine di Mendrisio. Vi si conserva il vino e «sono un posto di réunion, dove la gente si raccoglie per svagarsi, le feste o dopo il lavoro»: «Viste le cantine, portammo fuori alcune tazzette e ci mettemmo a bere. Quelle tazze sono di terra comune, ma in fondo sta scritto “Viva Bacco, Viva l’Italia, Viva la Gioia, Viva Venere” e simili; si posson comperare in qualsiasi negozio di terraglia del Mendrisiotto e sono molto belle» (S. Butler, Alpi e santuari del Piemonte e del Canton Ticino, 1881). Piero a Danilo, martedì 18 ottobre, ore 13,20 Direi che possiamo chiudere qui, cosa dici? Vino rosso, dunque: «nostrano» per cominciare, e poi piemontese. Qualche bottiglia di Barbera? Sì. Se ciotole o bicchieri, mi par di capire che lasciamo la faccenda in sospeso: conoscendo gli internazionalisti escludiamo solo le ciotole con la scritta «Viva l’Italia» … A questo punto non ci resta che passare anche noi al brindisi, giusto? In attesa di un’occasione per farlo, grazie ancora. |
Piero a Danilo, martedì 18 ottobre, ore 22,20
Spero per loro che abbiano bevuto in un bicchiere di vetro. Cosa che faremo anche noi, alla prima occasione (mi ha detto Fabio che magari sarai qui quando viene Gigi Corazzol).
Ti ringrazio per la curiosa occasione creata intorno al congresso di Chiasso. Certo che avendo più tempo si potrebbe andare oltre...
A presto
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[1] Piero Brunello e Danilo Baratti si occupano, e scrivono, di storia. Il primo vive a Mogliano Veneto, il secondo a Soragno, presso Lugano.
(Che cosa bevevano gli anarchici? Piero Brunello intervista Danilo Baratti, in Vite ambulante. Nuove cattedre di enologia e viticoltura, a cura di Giovanni Gregoletto, Edizioni SUV, Pedeguarda di Follina, 2014, pp. 261-269. Seconda edizione: 2015, pp. 261-269. Nella prima edizione è saltata una parte dell’articolo, nella seconda c’è tutto)
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