Dal Ticino al Paraguay (2013)
Mosè Bertoni e la trasmigrazione di piante, con un aggiornamento sulla Stevia rebaudiana Bertoni (2017)
Dal Ticino al Paraguay (2013)
Conversazione di Teresa Isenburg con Danilo Baratti e Patrizia Candolfi
Danilo Baratti e Patrizia Candolfi, docenti e ricercatori a Lugano, hanno lavorato per alcuni anni intorno alla figura di Mosè Bertoni (1857-1929), un emigrante ticinese stabilitosi in Paraguay a fine Ottocento. Un personaggio che hanno definito «eccessivo e multiforme», difficile da presentare in poche righe. Botanico di formazione ma enciclopedico per vocazione (e per necessità), si è occupato anche di meteorologia, agronomia, etnografia, storia, linguistica e altro ancora, diventando un celebrato, benché discutibile, padre della scienza (e della patria) paraguaiana. Su di lui i due storici hanno pubblicato due ampie biografie: L’arca di Mosè. Biografia epistolare di Mosè Bertoni (Bellinzona 1994) e Vida y obra del sabio Bertoni. Un naturalista suizo en Paraguay (Asunción 1999). Altri loro scritti su Mosè Bertoni sono apparsi sul «Bulletin de la Société suisse des américanistes» (n. 66-67, 2002-3) e sull’«Archivio storico ticinese» (n. 146, 2009, in cui rielaborano un articolo scritto per l’opera collettiva El hilo rojo. Palabras y prácticas de la utopía en America Latina, Buenos Aires 2009, a cura di M. González de Oleaga e E. Bohoslavsky).
Recentemente si sono occupati di un'altra storia, molto diversa, che pure lega i due continenti: quella del pastore valdese Guido Rivoir (1901-2005), che ha vissuto alcuni anni della sua gioventù nel Río de la Plata, appunto come pastore, per poi rientrare in Italia e stabilirsi definitivamente, dal 1937, in Svizzera: Guido Rivoir, Le memorie di un valdese (Bellinzona-Torino 2012). Protagonista del consolidamento della presenza protestante nella Svizzera italiana, Rivoir ha collaborato con la Resistenza piemontese durante la guerra e ha animato un’efficace azione di aiuto ai profughi cileni dopo il golpe del 1973.
Danilo Baratti e Patrizia Candolfi hanno pubblicato anche Il paesaggio alpino della Svizzera italiana (Milano, 1998). Ma è per la loro conoscenza di Mosè Bertoni che abbiamo deciso di intervistarli per questo numero di «Altre Modernità».
Teresa Isenburg: immagino che anche Mosè Bertoni, nella sua lunga attività di botanico, colono, e sperimentatore agricolo abbia avuto una parte nella storia dei trasferimenti di piante da un continente all’altro.
Danilo Baratti: per cominciare l’ha avuta nel portare con sé, nel viaggio dall’Europa all’Argentina, la sua meta iniziale, una grande quantità di semi da coltivare. Semi che si era procurato prima di partire da vari istituti commerciali e di ricerca, tra cui la Société d’acclimatation de France a Parigi. In un piano contabile precedente la partenza, la spesa per le sementi raggiunge i mille franchi svizzeri di allora: una cifra notevole. In una lettera al console argentino in Svizzera, parla di mille semi di piante utili ricevute da ogni parte del globo, molte delle quali non ancora introdotte nel Plata, a partire dalle quali intende avviare un giardino sperimentale nella regione di Misiones. Poi le cose andranno diversamente. In una delle prime corrispondenze dall’America dice di aver fatto omaggio di una collezione di 75 specie di Eucaliptus al segretario particolare del presidente Julio Roca. O forse allo stesso Roca, non è ben chiaro.
Teresa Isenburg: curiosa questa relazione tra i presidenti argentini e l’eucalipto. Ho letto da qualche parte che a introdurre l’eucalipto in Argentina è stato Domingo Faustino Sarmiento. E qui ecco che Julio Roca riceve degli eucalipti da Bertoni.
Patrizia Candolfi: sì, Sarmiento ne ha messo in circolazione dei semi poco dopo la metà dell’Ottocento, prima di diventare presidente. Pare che abbia detto «el eucalipto será el marido de la Pampa». Alcune specie di eucalipto si sono poi ampiamente diffuse nella regione, ma soprattutto a partire dal primo Novecento. Quanto a Bertoni, si era già interessato al genere Eucalypto già qualche anno prima di emigrare: aveva fatto qualche sperimentazione in val di Blenio e aveva pubblicato alcuni articoli in merito. Anche la sua prima pubblicazione scientifica in terra americana riguarda gli eucalipti, la loro acclimatazione.
Tornando a Roca, Bertoni e i suoi accompagnatori, una decina oltre ai famigliari, avevano ricevuto delle terre nella provincia di Misiones, nell’ambito di un programma statale di stimolo alla colonizzazione che prevedeva tutta una serie di facilitazioni per gli immigrati disposti a colonizzare aree ancora incolte. Si spiega così l’omaggio di Bertoni, e in generale un atteggiamento di deferenza e riconoscenza nei confronti del presidente Roca e del suo entourage. Fa un certo effetto, pensando che Bertoni parte dall’Europa con idee vagamente anarchiche e che Roca è stato il principale protagonista della cosiddetta Conquista del desierto, cioè della definitiva distruzione delle popolazioni indigene della Pampa, che si conclude proprio nel 1884, l’anno in cui Bertoni arriva in Argentina. Ma non è che una tra le molte contraddizioni del nostro emigrante.
Teresa Isenburg: avete detto che poi le cose sono andate diversamente.
Patrizia Candolfi: sì, perché la permanenza a Misiones è stata molto problematica: defezione di compagni, minacce di potenti locali, maltempo... Una grande inondazione gli porta via le collezioni botaniche che si era portato dalla Svizzera, insieme al frutto delle nuove erborizzazioni misioneras. Ma anche le colture sono travolte, compreso il giardino di acclimatazione che si era impegnato con il governo a realizzare (e che complicava la vita dei Bertoni: ricordo che la madre si lamentava perché a causa di «quel benedetto giardino di acclimatazione» non era possibile allevare galline). Nel 1887 si trasferisce con la numerosa famiglia più a nord, sull’altra riva del Paraná. In Paraguay ricomincia tutto da capo, prima a Yaguarazapá e poi definitivamente a Puerto Bertoni, sempre sul Paraná, tra la confluenza con il Monday e quella con l’Iguazú. È soprattutto da quel momento, dal 1893, che la sua attività di sperimentatore agricolo riprende con una certa regolarità, sia nella sua colonia, che chiama Guillermo Tell, sia presso la scuola nazionale di agricoltura di Asunción, che dirige dal 1896 al 1905.
Danilo Baratti: di fatto avvia due “stazioni agronomiche”, una a Puerto Bertoni e una nella capitale, con lo scopo di selezionare e migliorare le varietà di piante utili, in vista della commercializzazione e dell’esportazione. Questo impegno si riflette nella pubblicazione di vari articoli e soprattutto di due grandi opere. La prima, mai conclusa, è Plantas usuales del Paraguay, l’altra è l’Almanaque agrícola paraguayo y guía del agricultor (o Agenda y mentor agrícola nelle ultime edizioni). Ma, tornando al tema, si tratta di studi e sperimentazioni di piante native o già presenti sul suolo americano: caffè, tabacco, mais, manioca, sorgo, mate, agrumi, cotone...
Teresa Isenburg: quindi non vi risulta che abbia avuto un ruolo attivo nel trasferimento di piante da un continente all’altro, una volta stabilitosi in Paraguay.
Danilo Baratti: probabilmente l’ha avuto, ma non possiamo valutarlo con certezza. La stazione agronomica di Puerto Bertoni pubblicava, nella sua rivista, un catalogo delle piante lì coltivate, e intratteneva una corrispondenza con alcuni istituti di altri continenti. Non sappiamo quanto queste relazioni abbiano portato a scambi concreti di materiale vegetale. Sarebbe lungo raccontare qui le molte difficoltà, legate in gran parte all’instabilità politica ed economica e all’isolamento, che questa Stazione agronomica nella foresta dell’Alto Paraná ha dovuto attraversare. Nel 1922-23 Bertoni comunica ad alcuni istituti (come all’Office of foreign seeds and plants introduction del Ministero per l’agricoltura degli USA o la sezione di orticoltura del Ministero egiziano dell’agricoltura) che la Stazione è in crisi, che esiste sì e no, che non è più in grado di far fronte alle richieste. Manda comunque alcuni semi, ma non sappiamo quali. Fa notare, in queste lettere, che la Stazione agronomica di Puerto Bertoni continua tuttavia a conservare, tra altre cose, una collezione di 150 varietà di manioca, 200 varietà e ibridi di Citrus, una quarantina di varietà di yerba mate e, aggiunge, «l’unica coltivazione di Stevia rebaudiana al mondo». Ma sulla possibilità di fornire la stevia si può avere qualche dubbio. Per quanto in prospettiva è forse proprio nella stevia che possiamo trovare un contributo bertoniano indiretto ma importante al trasferimento di piante dal Sudamerica all’Asia.
Teresa Isenburg: mi pare che della stevia si parli spesso da qualche anno, e che porti proprio il nome di Bertoni.
Patrizia Candolfi: sì. Stevia rebaudiana Bertoni. Una piccola pianta arbustiva perenne che in natura cresce nel sottobosco dell’Alto Paraná, e che i guaraní chiamano Ka’á-he’è, che significa erba dolce. Bertoni la conosceva fin dal suo arrivo in Paraguay, nel 1887 e l’aveva classificata già nel 1899, dandole il nome di Eupatorium rebaudianum Bertoni, in omaggio all’amico Ovidio Rebaudi, chimico italo-paraguaiano stabilitosi in Argentina, a cui aveva commissionato l’analisi chimica. Il nome scientifico definitivo le è dato nel 1905 e nella sua forma completa è Stevia rebaudiana (Bert.) Bertoni. Dopo la prima analisi di Rebaudi, il chimico tedesco Karl Dietrich aveva separato gli elementi dolcificanti del Ka’á-he’è, che ha chiamato eupatorina (poi stevina) e rebaudina. Oggi si parla di glicosidi steviolici, tra cui lo stevioside e il rebaudioside A. Quale che sia la denominazione degli agenti dolcificanti, il fatto è che questi sono circa 300 volte più dolci dello zucchero e sono privi di calorie. Bertoni aveva intuito subito i pregi dietetici e medicinali e i possibili vantaggi di una produzione industriale. La difficoltà stava però nella domesticazione della pianta. Fin dalla prima comunicazione della scoperta, Bertoni ha ricevuto varie lettere di interessamento da parte di importanti industrie chimiche e alimentari mondiali (tra cui le svizzere Hoffmann-La Roche e Tobler). A quell’epoca la quantità raccolta in natura era scarsissima, assolutamente insufficiente per una distribuzione su larga scala. Bertoni ha tentato per anni di riprodurre la pianta artificialmente ma senza riuscirci. Da quanto sappiamo la coltivazione artificiale a fini commerciali è iniziata in Paraguay solo verso la fine degli anni Sessanta, ma poi sono stati i giapponesi, negli anni Settanta, a perfezionarne le tecniche di riproduzione e coltivazione, e a estenderla nel Sud-Est asiatico. Nel continente d’origine oggi è coltivata in misura sempre maggiore in Paraguay e Brasile, con semi selezionati in Giappone. Ma ci sono coltivazioni sperimentali in vari paesi. In Ecuador una ONG ticinese ne aveva avviato la coltivazione, ma non so come è andata a finire. Nel febbraio 2013 abbiamo visto una coltivazione sperimentale su piccola scala nelle colonie valdesi in Uruguay, a Colonia Valdense. Anche lì con semi provenienti dal Giappone, purtroppo. È stata una scena divertente: la direttrice dell’azienda agricola biologica del Centro Emmanuel, un centro di incontro ecumenico legato alla Chiesa valdese, ha chiesto al gruppo in visita se qualcuno conosceva quell’erba. Anzi, l’ha fatta assaggiare proprio a me, ed è rimasta allibita sentendomi sentenziare «Ka’á-he’è».
Teresa Isenburg: quindi Bertoni è stato vicino all’affare della sua vita...
Danilo Baratti: certo, se fosse riuscito nell’intento, avrebbe forse risolto una volta per tutte i suoi ricorrenti problemi economici. Nelle intenzioni di Mosè Bertoni la colonia Guillermo Tell, formata essenzialmente dalla grande famiglia (tredici i figli, e decine i nipoti), a cui si aggiunge qualche peone e qualche occasionale lavorante guaraní, doveva essere economicamente autosufficiente. La vendita di prodotti agricoli, soprattutto di caffè e banane, doveva sostenere la ricerca scientifica (agronomica, meteorologica, botanica e zoologica, etnografica...) e permettere di pubblicarne i risultati. A questo proposito, anche per dare la misura del personaggio, è utile ricordare che Bertoni aveva fatto portare, in piena foresta, una stamperia dalla quale sono uscite parecchie delle sue opere più voluminose, oltre a molti numeri della rivista della Stazione agronomica. A occuparsene erano lui e due figli. Facevano tutto, dalla composizione alla rilegatura. Altro dato significativo: una biblioteca che aveva raggiunto i ventimila volumi. Questa colonia di famiglia doveva costituire una comunità in cui lavoro agricolo e ricerca scientifica si integrassero armoniosamente, ma la situazione economica del dopoguerra, le leggi sul commercio fluviale, la contrazione degli scambi, la grande gelata del 1918, i ricorrenti disordini politici, le defezioni di alcuni figli... tutte queste difficoltà hanno portato Puerto Bertoni in una fase di ristrettezze economiche e di decadenza, diciamo a partire dal 1915. Nelle lettere di quegli anni si parla di prodotti invenduti, di piantagioni devastate, di collezioni botaniche distrutte dagli insetti e dall’incuria, di pubblicazioni rinviate. Magari se la coltivazione artificiale della stevia fosse partita a quell’epoca, Bertoni ne avrebbe potuto trarre un minimo di sicurezza economica e avrebbe potuto portare a termine alcuni progetti rimasti incompiuti. E vivere un po’ più tranquillo.
Patrizia Candolfi: oggi la Stevia rebaudiana Bertoni si sta affermando un po’ ovunque, suscita molto interesse e molte iniziative commerciali. Basta digitare «stevia» in Google per rendersene conto. I maggiori consumatori sono i cinesi e i giapponesi. In Giappone, come ho già detto, è coltivata fin dagli anni Settanta. Per parecchio tempo la sua diffusione era stata ostacolata dalle autorità di vari paesi, in particolare nell’America del Nord e in Europa. Per esempio negli Stati Uniti la Food and drugs administration ha condotto una dura guerra alla stevia, così come altri enti nazionali e sovranazionali, tra cui anche l’OMS. Secondo i fautori della stevia, gli allarmi sui possibili pericoli della pianta (eventuali allergie, o la cancerogenità di una sostanza, lo steviolo), facevano in realtà gli interessi dei grandi produttori di dolcificanti artificiali, a cui la diffusione del Ka’á-he’è poteva fare una temibile concorrenza. Da oltre un anno è parzialmente utilizzabile nell’UE, dopo una decisione positiva dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare. Resta illegale, mi pare, la commercializzazione della pianta come derrata alimentare (è ammesso solo l’uso di qualche foglia nelle tisane), anche se si trovano facilmente semi e piantine dai rivenditori specializzati. Si possono invece usare come additivi alimentari i glicosidi steviolici (indicati con il codice E-960). Nei supermercati svizzeri si trovano ora gli estratti dolcificanti di questo tipo prodotti da Assugrin, un marchio che fin qui si identificava con i dolcificanti al ciclamato o all’aspartame, la cui nocività è vivacemente discussa da anni. Curioso no? L’impressione è proprio che il via libera alla stevia sia stato dato quando i grandi produttori di dolcificanti chimici erano ormai pronti al cambiamento e in grado di assicurarsi la nuova materia prima e mantenere la loro presenza sul mercato. In Europa, da prodotto di nicchia e semiclandestino, la Stevia rebaudiana Bertoni sta diventando un grande affare. Troppo tardi per Bertoni – che oltretutto, per praticità o sciatteria, viene quasi sempre dimenticato nella denominazione del prodotto. Anche nelle confezioni dell’erboristeria svizzera, che pure potrebbero farne un “brand ticinese”, è indicata semplicemente come Stevia o Stevia rebaudiana. Neppure sul catalogo e sulla bustina di Mauser, il principale venditore svizzero di sementi, compare il nome completo.
Danilo Baratti: sì, è strano che in un’epoca in cui ci si aggancia a ogni frammento di identità regionale per spacciare questo o quel prodotto, nessuno in Ticino o in Svizzera abbia pensato di mettere in rilievo questo contributo “nazionale” alla storia della stevia (a parte una piccola iniziativa durante la Settimana del gusto 2012 a Locarno, in cui sono stati proposti dessert dolcificati alla stevia con un preciso riferimento a Bertoni). Per il resto il fatto che nell’ambito commerciale la pianta compaia senza l’indicazione del nome dell’autore, cioè di chi l’ha determinata, è abbastanza normale. Si può già esser contenti se indicano almeno l’epiteto specifico rebaudiana (chiamarla semplicemente stevia, come ci siamo permessi di fare qualche volta anche noi per non appesantire il discorso, è scorretto, visto che al genere Stevia appartengono circa 150 specie). Magari questa intervista riparerà almeno parzialmente l’abituale omissione del nome di Bertoni, che usava dire, di fronte all’incomprensione di molti paraguaiani, «los mejores triunfos son póstumos».
(Dalla rivista online dell’Università degli Studi di Milano «Altre Modernità-Otras Modernidades», n. 19, 2013)
https://riviste.unimi.it/index.php/AMonline/article/view/3355
Un aggiornamento sulla Stevia rebaudiana Bertoni (2017)
La Stevia, le multinazionali e i guaraní
di Danilo Baratti
Mosè Bertoni alla fine dell’Ottocento ha determinato botanicamente una pianta che i guaraní conoscevano e utilizzavano da secoli come edulcorante e come medicinale. All’inizio di questo millennio i prodotti alimentari dolcificati con sostanze estratte con processi fisico-chimici dalla Stevia rebaudiana Bertoni hanno visto una crescita esponenziale. Nel 2015 i brevetti sui glicosidi steviolici erano circa 450, detenuti da otto imprese: Cargill, Coca-Cola, DSM, Evolva, McNeill Nutritionals, Pepsi-Cola, Pure Circle e Suntory Holdings. Si cerca ora di passare alla produzione di glicosidi di steviolo tramite la biologia di sintesi, con l'introduzione di sequenze genetiche in un organismo ospite (per esempio un lievito) senza nemmeno più ricorrere alla pianta.
Secondo l’associazione Public Eye (già Dichiarazione di Berna) siamo di fronte a un caso classico di biopirateria, che viola la Convenzione delle Nazioni Unite sulla diversità biologica, in vigore dal 1993, che prevede il consenso dei delle popolazioni autoctone per lo sfruttamento delle "loro" risorse. Public Eye ha quindi avviato, con altre organizzazioni, una campagna tesa a far beneficiare i guaraní di una parte dei profitti generati dall’uso commerciale della Stevia. Sono state coinvolte una sessantina di comunità guaraní dei Paï Tavyterã del Paraguay e dei Kaiowa del Brasile. I rappresentanti guaraní, riuniti in assemblea nell’agosto del 2016, hanno espresso le loro rivendicazioni in una dichiarazione comune, e Public Eye ha lanciato una petizione che ha già raccolto più di 200 mila sottoscrizioni.
L’azione ha avuto qualche effetto. Nel novembre del 2016 Public Eye scriveva: «Fra le società svizzere cui ci siamo rivolti, alcune sembrano pronte a farsi carico delle proprie responsabilità. È questo il caso di Evolva, azienda di Basilea che in partenariato con Cargill produce glicosidi steviolici attraverso la biologia di sintesi e che si dice “pronta ad avviare una discussione sulla ripartizione dei profitti con i Guaraní”. Nestlé afferma dal canto suo di sostenere questo principio e di “stare al momento valutando la possibilità di prendere ulteriori impegni”. I colossi americani Unilever, Coca-Cola e PepsiCo rifiutano di pronunciarsi su di un eventuale accordo. Sono tuttora in corso discussioni con altre aziende a livello svizzero ed internazionale». Addirittura «Coca-Cola, uno dei maggiori utilizzatori di glicosidi steviolici al mondo, ha ignorato la maggior parte delle nostre domande e continua a sfruttare l'immagine dei Guaraní per promuovere le vendite di Coca-Cola Life».
In questi ultimi decenni la trasformazione del territorio in Paraguay è stata rapida e brutale, con un ritmo di deforestazione tra i più intensi al mondo (e con la progressiva scomparsa dell'habitat naturale della Stevia). Il 2% dei proprietari possiede l’85% delle terre, sfruttate per l'allevamento estensivo e sempre più per la monocoltura della soia, quasi tutta transgenica e coltivata con abbondante uso di pesticidi, in particolare quelli della Monsanto a base di glifosato. Gli esiti sono drammatici per le comunità indigene, costrette ad abbandonare la propria economia tradizionale o ridotte a sopravvivere negli scampoli di territorio agricolo e silvestre non ancora conquistati dalle piantagioni di soia. Migliaia e migliaia di piccoli contadini paraguaiani sono ormai ammassati nelle bidonvilles di Asunción.
Anche il territorio di quella che fu la Colonia Guillermo Tell, fondata da Mosè Bertoni, è ora largamente occupato dalla monocoltura della soia. Si è salvato solo il fazzoletto di selva intorno a Puerto Bertoni. Lì vivono dei guaraní di ceppo Mbyá che, con l’aiuto di un’organizzazione di sostegno giuridico, tentano da anni di ottenere i diritti su parte delle loro antiche terre. Sono i discendenti dei guaraní fotografati a Puerto Bertoni circa un secolo fa, che probabilmente lavoravano come braccianti a giornata nella colonia.
Per saperne di più:
- sulla campagna di Public Eye: https://www.publiceye.ch/it/
- sui guaraní di Puerto Bertoni: http://www.mosebertoni.ch/pdf/UtopizzazioneERealtadiPuertoBertoni.pdf (capitolo 7)
(Danilo Baratti, La Stevia, le multinazionali e i guaraní, «Voce di Blenio», marzo 1917, p. 9)
MosèBertoni, PatriziaCandolfi, Americalatina, 2013, 2017, AltreModernità, VocediBlenio
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